Francesco Dongiovanni, regista pugliese classe 1978, si muove con naturalezza nel suo territorio d’elezione, il documentario, incrinandone tuttavia tendenzialmente - in maniera feconda e stimolante - la sostanza profonda, per valicare agilmente i limiti dell’analisi etno-sociologica (che viene usata come un opportuno trampolino di lancio) e approdare finalmente in una dimensione che è, assieme, osservazione e indagine sul reale dal un lato, e riflessione estetico-poetica dall’altro.
Questo peculiare approccio, che viaggia al limitare, al margine di una cosa ma già si sporge oltre i suoi confini, caratterizza del resto tutta una parte – una delle migliori certamente - del contemporaneo cinema italiano: quello che prende le mosse dal documentario con l’urgenza di farne però momento creativo in senso estetico, linguistico, stilistico (dal celebrato Bella e Perduta di Pietro Marcello fino al cinema – incomprensibilmente “sommerso” in patria – di registi come Giovanni Cioni e Cosimo Terlizzi, dei quali più volte si è parlato nelle pagine di Point Blank).
Dongiovanni, con quattro documentari alle spalle realizzati dal 2011 a oggi, ha già rimarcato e dichiarato le sue specifiche predilezioni tematico-stilistiche: la natura, la terra, le tradizioni, il ricordo – e in particolare la Puglia – descritte all’insegna di un linguaggio piano ed essenziale, che è allo stesso tempo dolce, nella sua lentezza ritmata, e spartano, nella sua purezza. Se è vero che tra passato e presente si è prodotto uno strappo doloroso, deleterio e incolmabile – questo ci suggerisce in ultimo il cinema attento del regista pugliese – allora forse la soluzione sta proprio nel linguaggio/sguardo che l’autore ci propone: un procedere lento che è ricerca di senso, riappropriazione del (proprio) tempo, volontà di rinnovare – depurando e disinquinando – il proprio modo di osservare il reale. Non una fuga utopica e illusoria fuori dal qui e ora, ma - in luogo di questa - semplicemente la necessità oggettiva di comprendere, nei suoi lati più problematici e urgenti, il rapporto ormai pericolosamente squilibrato tra uomo e paesaggio, uomo e ambiente, uomo e Natura.
Il tuo primo film, Densamente spopolata è la felicità, racconta la pastorizia nelle terre scabre e fascinose della Murgia ed è uscito in dvd accompagnato da un testo che indaga questi luoghi in una prospettiva che è assieme, potremmo dire, antropologica e letteraria. Anche i tuoi successivi lavori, seppure in maniera diversificata, appaiono sempre profondamente radicati nel contesto territoriale e culturale che scelgono di volta in volta di descrivere. Come nasce, come si sviluppa questa sorta di connubio tra cinema ed etnografia?
Spesso, a proposito dei miei lavori, si è parlato di cinema etnografico o antropologico; e non nego che entrambe le discipline rientrino tra gli interessi che più mi appassionano, anche se ad un livello non scientifico o accademico. Ho sempre pensato però che la parola ‘cinema’ non sopporti nessuna aggettivazione e non mi convincono quelle classificazioni tipo ‘cinema sociale’, ‘cinema del reale’, ‘cinema sperimentale’ e via dicendo. Certo, hai ragione quando dici che il mio cinema è profondamente radicato nella mia terra, anche se piuttosto che di Puglia, parlerei più ampiamente di Sud o di Mediterraneo. Questa mia propensione dipende certamente da una reazione molto soggettiva all’atto del filmare, che ho scoperto essere mia, empiricamente, lavorando negli anni: e cioè una sorta di incapacità a produrre immagini, se non a partire da un qualcosa che visivamente già conosco, già è mio e fa parte del mio immaginario. È come se le immagini, prima che prodursi meccanicamente nell’atto della ripresa, debbano essersi formate da qualche parte, nella mia testa, nei miei occhi, in un tempo precedente, per poi depositarsi e crescere, fino a diventare mature al punto da potersi staccare in un’immagine oggettiva, che sta fuori di me. È chiaro, quindi, che quando si tratta di lavorare sul paesaggio questo non può che essere il paesaggio che mi circonda nella vita quotidiana. Voglio dire, insomma, che la mia non è una scelta fatta a tavolino, né una sorta di rivendicazione di appartenenza territoriale o provinciale. D’altronde i miei film non parlano mai di un luogo determinato o di storie che accadono in un luogo determinato. I miei lavori cercano piuttosto di costruirsi e svilupparsi attorno a delle immagini-mito, immagini cioè cariche di una stratificazione visiva e di significato molto personale, che ha a che fare piuttosto con la mia biografia, con la mia storia. Il pastore, la collina brulla, la masseria abbandonata non mi interessano per il loro dato storico, sociale, antropologico, narrativo o estetico. Mi interessano perché sono immagini che mi abitano e non smettono di affascinarmi.
Uno dei tasselli chiave della tua poetica è, ancora, il rapporto tra passato e presente, la seduzione malinconica del ricordo evocato di volta in volta da specifici luoghi o da immagini d’archivio (pensiamo a Giano). Questo aspetto è in un certo senso consequenziale a quello dell’indagine antropologica, ma al contempo sembra nascere spontaneamente dalla potenza sprigionata dal “genius loci” di alcuni siti particolarmente ricchi di suggestioni storiche, come la San Basilio di Anapeson. Come nasce l’idea di questo film, ovvero l’interesse per le preziose memorie del conte e naturalista De Salis Marschlins, che raccontò la Puglia del finire del XVIII secolo?
La nostalgia, la malinconia sono dei sentimenti molto forti e, per me, estremamente produttivi, se posso dire così. La mancanza di una persona o di un luogo, la perdita, la distanza, il passato che non ritorna, sono sensazioni che si legano inevitabilmente al ricordo, che è creazione di un’immagine, che può essere allo stesso tempo fonte di sollievo e di sofferenza. Il nòstos omerico, che ritroviamo nell’etimo di ‘nostalgia’, è proprio questo: il dolore per un ritorno (alla patria, alla casa, alla famiglia, alla donna amata) che appare impossibile e che si può lenire attraverso la creazione di immagini sostitutive: il ricordo, appunto. Anapeson è proprio questo ritorno ad un luogo abbandonato che, attraverso il meccanismo della nostalgia, riattiva un legame, una storia. Ma, quando con Marco Cardetta, che con me ha scritto il film, abbiamo pensato al racconto del viaggio del conte svizzero, non l’abbiamo fatto per un interesse nei confronti del dato storico, geografico o antropologico, ma per il cortocircuito visivo che si veniva a creare tra le immagini che vediamo del luogo abbandonato e le parole che descrivono quel luogo com’era due secoli fa, quando invece era vivo e florido. Mi interessava essenzialmente questa doppia partitura visiva, una prodotta dalle immagini che vediamo, e una dalle parole che sentiamo, parole che non sono una giustapposizione narrativa, ma immagini esse stesse. L’immagine si fa trasparente, attraversabile dalle parole, che producono a loro volta una visione, direi, doppia, fantasmatica. Alla fine stiamo parlando di un film di fantasmi (ora che ci penso, le persone che abitano lì vicino sono convinte che il palazzo sia infestato dai fantasmi ?).
In tutti i tuoi film si avverte, in modo ora sottile ora più deciso, la volontà di mettere a fuoco uno strappo insanabile che si è prodotto tra un prima e un dopo: è un mutamento tutto in negativo, fatto essenzialmente di perdite (di rituali, tradizioni, cultura) se non di colpevoli abbandoni, come mostra il confronto serrato tra immagini e parole che prende forma ancora una volta in Anapeson. In questo senso, il tuo cinema sembra assolvere una funzione urgente e necessaria: laddove non è possibile sanare una rottura, è a maggior ragione necessario prenderne coscienza.
La tua riflessione su un ‘prima’ e un ‘dopo’ tocca un altro aspetto centrale del mio lavoro. E la questione del tempo, del suo scorrere, della sua durata, della sua percezione va di pari passo con quanto si diceva prima a proposito della nostalgia, del ritorno, della perdita. Certo, in tutti i miei film tocco un materiale visivo e narrativo che sta sul limite tra essere e non essere o questo limite l’ha superato, lasciando poche sparute tracce del suo essere stato. Il pastore di Densamente, ultimo di una tradizione lunga secoli e ormai al tramonto, è l’immagine colta nel suo disfarsi di un mondo già finito e passato. I Super8 di Elegie ci mostrano facce, abiti, strade, case, modi di vivere che già non esistono più. E così per le foto di archivio di Giano o per le stalle sfondate di Anapeson. Ma non si tratta per me di una fuga dal reale, di un arroccamento in un passato mitico, in un illusorio e pacificante ripiegamento su un mondo contadino puro e non toccato dalla cattiva modernità. Così come, all’opposto, non si tratta nemmeno di prendere coscienza e denunciare pasolinianamente l’abbandono e la distruzione della cultura contadina o la frattura profonda tra uomo e natura. Alla fine non si tratta né di accusare né di perdonare, né di sanguinare né di sanare, ma, molto più semplicemente, di provare a comprendere il proprio tempo attraverso una visione, un’immagine, un racconto.
Uno sguardo alla contemporaneità italiana: sebbene secondo tendenze, approcci e stilemi differenti e personali, sono diversi oggi i registi italiani che si muovono in una dimensione liminale del documentario, che si arricchisce, si ibrida, si trasforma sempre più in qualcosa d’altro. Tutto ciò sembra suggerire da un lato che non sia più ipotizzabile una distinzione netta tra documentario e fiction (come è giusto che sia in un panorama in evoluzione e in mutamento) e dall’altro che il cinema della nostra contemporaneità stia riaffermando la voglia e il coraggio di indagare, denunciare, scavare nel reale, senza rinunciare alla ricerca stilistica, ma anzi riaffermandone la necessità anche in un territorio filmico dalla natura fortemente politica, sociologica o etnografica. Qual è il tuo punto di vista, la tua sensazione rispetto a questo stato di cose?
Non credo di essere in grado di analizzare la contemporaneità italiana, le diverse tendenze e stili. Non sono un divoratore di film, né un habitué di festival e rassegne. Certo, vedo, come te, una forte ibridazione dei linguaggi e finalmente un superamento del vecchio schema fiction-documentario. Ma spesso a schemi si sostituiscono schemi. E i linguaggi si possono pure ibridare ma, banalmente, se non si ha niente di interessante da dire e da far vedere, diventa un puro gioco formale. Non so quanto sia diffusa, come dici, questa tendenza a conservare, a prescindere dai territori in cui un film decide di muoversi, una personale scelta stilistica. Credo che però sia questa la strada giusta e spero, nel mio piccolo, di saperla percorre anch’io. Mi sembra però che spesso, nel cinema italiano e non, le immagini vengano mortificate, schiacciate, camuffate, per poi venire addomesticate al contenuto, al messaggio, all’ipotesi di lavoro, alla shock emozionale, alla trovata narrativa o alla trovata tecnica. Io provo a lavorare partendo dall’immagine colta nella sua purezza, integrità e autonomia. Per i miei lavori, parto sempre da un’immagine, che appare all’inizio irrelata da tutto. E poi, via via, da quel primo fotogramma, la visione d’insieme si dipana e prende forma. Ma quel primo fotogramma segna già la strada e la scelta stilistica che seguirò. Ecco, mi piacciono soprattutto quei film in cui si riconosce subito l’occhio, la visione dell’autore. Poi possono parlare di qualsiasi cosa o anche di nulla.
Fino ad ora hai raccontato e descritto luoghi e tradizioni di un’area specifica, quella lucana e soprattutto pugliese, della quale hai restituito con grande espressività rituali, cultura, storia. Hai già messo a fuoco nuovi spunti tematici, nuove impressioni e suggestioni visive dalle quali partire per i tuoi prossimi lavori?
A breve comincerò il secondo lavoro della trilogia Elegie dall’inizio del mondo, che sto realizzando a partire dall’archivio di pellicole realizzate dallo scrittore e studioso materano Domenico Notarangelo tra gli anni Sessanta e Settanta in Lucania. Si tratta di un lavoro di scavo all’interno di un ricco archivio per portare alla luce, attraverso il lavoro di found footage, immagini di un passato contadino e di un’Italia interna in buona parte dispersi e invisibili. Nel frattempo con i miei collaboratori e la società di produzione che con loro ho fondato, Murex Production, stiamo iniziando a mettere in ordine un po’ di cose in vista del mio primo lungometraggio, che spero di poter girare molto presto, ma non posso dire nulla perché non c’è ancora nulla di certo. L’aspetto produttivo dei miei lavori si fa via via sempre più complesso ma devo dire che è un lavoro anche molto stimolante e formativo. Intanto seguiamo il percorso che sta facendo Anapeson tra festival e rassegne, con questa bella novità per noi della collaborazione con la società di distribuzione The Open Reel.