Giano

Fotografie, epitaffi, stanze vuote: un piccolo poema visivo sul trascorrere del tempo.

Francesco Dongiovanni si muove tendenzialmente in un fertile territorio di confine tra etnografia e poesia visiva per raccontare la terra, la tradizione, il passato, il mondo contadino, il trascorrere del tempo, il senso della memoria. La vita di un pastore sull’altopiano della Murgia è al centro del suo documentario Densamente Spopolata è la Felicità (2011), dove il titolo preso in prestito dal noto verso dei CSI contiene già in sé l’asprezza fascinosa del paesaggio, del mondo che viene descritto. Il successivo Elegie dall’Inizio del Mondo - Uomini e Alberi (2013) documenta invece un particolare rituale di fertilità - una sorta di “matrimonio” tra alberi – praticato vicino Matera.

Nel 2014 il regista realizza Giano, vero e proprio saggio visivo – fatto di materiali eterogenei ma profondamente affini e coerenti – sul senso del tempo: filmati familiari, foto d’archivio, stanze vuote e mura fatiscenti che conservano ancora echi misteriosi di vite che non sono più. Il tema della memoria sedimentata nei luoghi torna ancora nel suo ultimo lavoro Anapeson (2015), nel quale le riflessioni del conte e naturalista Carlo Ulisse De Salis Marschlins - vissuto tra sette e ottocento – ci guidano nella tenuta del Duca di Martina, in Puglia, che lo studioso visitò e della quale lasciò una particolareggiata descrizione. Dove lui aveva visto splendore e prosperità (una masseria ricca di armenti e greggi, enormi distese di campi coltivati) troviamo oggi edifici diroccati e il completo abbandono, resti di un’architettura meravigliosa la cui bellezza è stata divorata, forse più che dal tempo, dall’incuria colpevole e imperdonabile dell’uomo.

Il rapporto con il tempo (come eterno movimento, come sopravvivenza del prima in un dopo, come reminescenza nella forma concreta di resti, macerie, rovine) e l’incrociarsi di passato e presente in infinite sovrapposizioni, stanno al centro della poetica di Dongiovanni. In questo senso è possibile leggere Giano come un film chiave, dove il collage di immagini e suoni che viene messo a punto procede per nuclei tematici, abolendo tanto la parola quanto la narrazione tout-court e tuttavia tracciando un chiaro percorso (circolare?) che si avvia con il tema della nascita (stralci di un filmato familiare che descrive un battesimo) e termina nella quiete di un cimitero, dove ogni antica fotografia e ogni epitaffio raccontano una storia, quasi a richiamare la celebre Antologia di Spoon River.

Tra questi alfa e omega posti a incipit e conclusione, il regista racconta luoghi e volti del passato. Lunghe sequenze sono dedicate a una grande masseria abbandonata e cadente, con l’imponente facciata scrostata che conserva ancora l’intonaco rosso, una chiazza di colore nella campagna. Poco o nulla è rimasto nelle numerose stanze deserte; una porta dondola sui cardini e poi sbatte rompendo il silenzio, e oltre la porta si intravede una cucina semidistrutta, che sfoggia ancora il bel pavimento in cotto e il grande soffitto a volta. La macchina da presa si muove lenta, placida, sta lieve e leggera ai bordi della realtà quasi non volesse violarla, eppure la compenetra, si muove liquidamente dentro di essa, ne riversa tutto il portato davanti agli occhi dello spettatore. Cerca dettagli, attimi, impressioni: una fitta ragnatela mossa dal vento sul vetro sporco di una finestra, il muschio ostinato che invade i gradini, il vuoto assoluto delle stanze, così denso da trasfigurare in un vuoto interiore, quasi che l’assenza di cose, persone, vita, fosse un peso, una densità dell’aria, che impone allo sguardo un senso di amarezza. Fuori, come in una fiaba, un folto intrico di rovi si arrampica imperturbabile sui muri.

Seguono poi numerose immagini d’archivio che evocano un universo già dissolto, tutto rurale, fatto di sole e fatica, volti orgogliosi, pose fiere davanti all’obiettivo della macchina fotografica.

Immagini corpose su cui è sedimentata la Storia – somma di infinite piccole storie private – immagini che ci interrogano sul nostro passato e sulla nostra identità, immagini che ci guardano: di questa materia è fatto Giano, piccolo poema visivo portato avanti con semplicità ed estrema levità di tocco, che non vuole essere definitivo e lapidario ma al contrario rivendica la sua essenza di opera in divenire, fecondamente instabile, fluida, mobile, esattamente come il tempo.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 29/01/2016

Articoli correlati

Ultimi della categoria