The Survivalist
All'interno della fantascienza apocalittica, Stephen Fingleton si dimostra un degno epigone di maestri come Ballard o Christopher.
Vige da anni un prolifico filone letterario nella tradizione britannica. La predilezione per il genere letterario della fantascienza post-apocalittica che annovera tra i maggiori esponenti autori come James G. Ballard (con la tetralogia degli elementi) o il meno noto John Christopher (Morte dell’erba, Una ruga sulla Terra). Stephen Fingleton, con The Survivalist, si dimostra un degno epigone dei succitati maestri del genere, riuscendo a sfruttare degli stilemi spesso abusati al fine di restituire una lucida visione sul presente e trasmettere un messaggio dal forte valore sociologico.
Quello di The Survivalist è un mondo in cui sopravvivono da un lato gruppi conservatori che ancora propugnano, paradossalmente, lo status sociale di stampo occidentale – seppure sia lo stesso che ha portato alla rovina della civiltà – e dall’altro individui apolidi e solitari, che sembrano però gli unici custodi di un vivere incontaminato, perché coscienti del reale quadro tragico dell’umanità; finendo così per scegliere la strada dell’isolamento, dell’individualismo nell’accezione però positiva, di contro a quello spurio della società contemporanea.
È il paradosso dell’umanità, ridotta a vivere dei rottami di una società estinta perché dedita al consumismo sfrenato, allo spreco pilotato dalle multinazionali petrolifere. Ma che allo stesso tempo non riesce a distaccarsi da certe abitudini, certe dipendenze. Come l’impegno del protagonista a produrre dell’olio per la lampada da tenere sempre accesa durante la notte: unica compagnia nell’oscurità opprimente; fiammella di speranza e simbolo di retaggio indissolubile.
La vita richiama la morte. È la definitiva eclissi del bene disinteressato. Ci sarà sempre qualcuno da sfruttare così come qualcuno da sacrificare o disposto a sacrificarsi per il bene della sopravvivenza, per adattarsi a quell’istinto atavico della conservazione della specie: l’uomo accoglie le donne in casa solo per dar sfogo alle sue pulsioni sessuali; le donne curano l’uomo dalla ferita solo per garantirsi una protezione dai predoni; la figlia uccide la madre perché non più indispensabile per la sopravvivenza.
Ogni sovrastruttura crolla e prevalgono gli istinti più basilari. In una visione decisamente nichilista, nessun valore o legame emotivo persiste: l’affetto filiale e fraterno, così come l’amore, perdono di senso e si nullifica in favore di ciò che sono le priorità in un mondo ormai alla deriva.
Il contesto post-apocalittico si presta perfettamente alla messa in scena pura dell’essere umano, che diventa messa a nudo dell’individuo. La natura che sovrasta la figura umana, le fatiscenti oasi di fortuna, i silenzi prolungati e le scarne battute dalla forza ieratica (come ultime parole proferite da un’Umanità in perenne agonia) non fanno altro che suggerire una impasse irreversibile, il capitolo ultimo di una specie in via di estinzione, autodistruttasi con le proprie mani. “La fine di tutto è vicina Pietro 4-7” è l’epigrafe affissa all’entrata dell’accampamento dove si chiude questa storia tragica, ma è anche la consapevolezza dell’inarrestabile declino, mentre ancora ci si affanna a spremere la terra per il proprio nutrimento. Ciò che resta è il seme di un uomo sterile, che corrode ciò che lo circonda e si autofagocita con la sua voracità e la sua cattiveria, condannandosi alla fine ultima.