Tomb Raider

Fra foreste, dirupi e cascate, Lara Croft torna tramite il digitale al suo DNA originario (il codice binario) ma fallisce il dialogo con il mondo contemporaneo.

Angelina Jolie vs. Alicia Vikander.

La contrapposizione tra le due attrici equivale a quella tra la donna procace che ha indossato la canotta di Lara Croft nel 2001 e lo scricciolo che ha riportato sullo schermo l’eroina virtuale in Tomb Raider, rilancio del franchise all’epoca della digitalizzazione di massa. Il confronto è impietoso e si muove a sfavore della signora Fassbender che, fin dalla sua scelta, è stata accusata di avere ben poco di adatto, almeno sul versante fisico, per interpretare un personaggio del genere, tutto muscoli e femminilità (a giudicare da quanto è stato detto, il suo body non sarebbe sufficientemente augmented).

Eppure, la nostra giovane e minuscola attrice si impegna. Il suo approccio al film può essere sintetizzato dalla prima sequenza, in cui Lara Croft affronta il suo avversario su un ring e le prende di santa ragione senza tuttavia perdere l’orgoglio e la fede in ciò che fa. In questo nuovo adattamento, Lara ha rinunciato all’eredità paterna (maniero imponente nella campagna britannica e numerose aziende londinesi) scegliendo di guadagnarsi da vivere con le consegne a domicilio. Scelta che, in un certo senso, ben si accorda con l’epoca contemporanea e con l’immagine di un’eroina che non deve chiedere niente a nessuno (men che meno a un uomo) ma che sa farsi da sola. In tal senso (in virtù di un’ovvia attualizzazione), si può comprendere il motivo di un reboot della saga di Tomb Raider. Tra scorrazzate in bicicletta ed inseguimenti nel porto di Hong Kong, spingendo l’acceleratore sulla natura videoludica della messa in scena, Lara Croft si troverà coinvolta in una missione da cui «derivano grandi responsabilità».

Fin qui, l’operazione Croft va a buon fine. Lo spartiacque del primo plot point, tuttavia, segna indelebilmente il racconto, orientandolo verso un gioco al ribasso che, tra ammiccamenti vari a La mummia, Indiana Jones, Il mistero dei templari e ai più svariati action movie, perde la bussola finendo per naufragare al largo del Mare del Diavolo. La metafora è abbastanza rozza ma chiara: la ri-mediazione contemporanea di un’eroina dell’immaginario digitale soccombe al deserto (acquatico) del mare magnum cinematografico. Fra foreste, dirupi e cascate, Lara Croft affoga nelle referenze all’immagine classica inseguendo una ri-soggettivizzazione che non riesce a raggiungere ma che rimette tra le mani dei padri. Nel 2001, Angelina Jolie rendeva analogica un’eroina dal DNA in codice binario, sviluppata per varie console a partire dal 1996. Oggi il percorso è inverso e consiste nell’approdo di un personaggio ri-mediato analogicamente ad un mediascape digitale, in cerca di una propria legittimazione nella storia del cinema, attraverso richiami agli stilemi del film d’avventura classico. Sul versante della messa in scena, invece, la questione è opposta perché il first person shot tipico delle dinamiche dei videogame innerva lo sguardo del lungometraggio. Lara Croft così torna alla sua originaria natura binaria ma fallisce il dialogo con il tempo attuale. Questo primo episodio di un’ipotetica saga si muove con il pilota automatico, affermandosi come un ibrido indeciso sul linguaggio da scegliere e concentrando la propria attenzione sulla mera superficie del racconto, con il risultato di inanellare una serie di eventi poco appassionanti. Ma soprattutto Tomb Raider fallisce perché non riesce a creare uno scarto all’interno della tradizione più stantia del genere, e a ritrovare una nuova identità in mutate condizioni di spazio e di tempo. La stessa Lara Croft, icona dell’indipendenza femminile, affida il proprio destino alle mani di diversi uomini, creando una preoccupante inversione di senso nel percorso tracciato dalla prima parte del racconto ed una contraddizione in termini contenutistici. La costruzione di un carattere femminile emancipato cozza contro il paternalismo dominante cui giunge la conclusione del film, che si attesta, in tal senso, ancora più limitato nella creazione di senso di quanto non lo sia in termini estetici e teorici.

Questa origin story nasce morta perché incapace di donare nuova linfa ad un franchise ben noto alla memoria di massa, e di creare una dialettica con le immagini analogiche della macchina creatrice di immaginario per eccellenza. Banalmente, ci si aspettava un ruggito ben differente da un regista il cui nome fa Roar.

Autore: Matteo Marescalco
Pubblicato il 23/03/2018

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