Viaggio a Montevideo
Il viaggio: Dino Campana in cinque atti secondo Giovanni Cioni .
Il cinema di Giovanni Cioni aleggia e fluisce tra una partenza ed un ritorno, in quell’attimo sfuggevole, sfocato, trascinato da una lunga esposizione fotografica, da un divenire a un ricominciare. Mai fermo, un cinema che rincasa per ripartire, per viaggiare, per farsi sguardo e anima, verso del poeta, traiettoria tra un’immagine ed una sensazione. Un cinema che si nutre di esperienze personali, Viaggio a Montevideo è un’opera di un regista in contemplazione, che vede, che pensa, che ricorda, la sua vita, il suo viaggio vissuto insieme ai versi del poeta di Marradi, Dino Campana. Due partenze, due ritorni, che si uniscono in scambi complementari, intrecciandosi tra versi ed immagini, o che viaggiano paralleli come il ferro delle rotaie, per poi tornare ad accavallarsi tra gli scambi di una stazione, in esperienze, in sensazioni, in sguardi poetici vissuti nella contemplazione, tra le immagini, tra i suoni, da quei lampi di luce provenienti da una casa intravista su tra le alpi, dapprima percepita, pensata e poi perduta come un’immagine svanita, e recuperata infine da una didascalia. Cinque atti che costituiscono per Cioni un’esperienza di partenza, nata dal laboratorio cinematografico Oltreconfine in Val d’Aosta, per una cinematografia sentimentale ed insieme conoscitiva dell’uomo che attraversa un luogo per giungere ai confini del proprio infinito. Un confine intrepido come i personaggi in cerca di una fantasia, di un viaggio nel Mar dei Caraibi, tra forzieri, pirati, cannibali, sospinti dalle gesta del capitano Morgan, di Jolanda, in quel luogo ai confini di un distante, dove risiede la fantasia di un Salgari, e di un Cioni, una fantasia in grado di dare spessore alla brutalità del reale, in grado di scalfire con un gesto di spada fantastica - con un minimo gesto di una cinematografia rivelata - quella condizione di assoluta realtà che restringe dentro alla materia un fluido amniotico, vivente, pensante, immaginifico. «Un film che racconti questo: essere in vita, e dove, e quando...», nell’attimo stesso di esistere, saperlo percepire, saperlo ricordare, e poi renderlo agli spettatori in un vettore sensoriale, in immagini che si trasformano in altre immagini, in dissolvenze incrociate, in fotografie statiche di ricordi lontani, che tornano, e ritornano, e poi partono, e ripartono, come delle nuvole che incorniciano delle prospettive: delle viste panoramiche sulla poesia, su Campana, su Cioni, necessarie a definire il dove, a cristallizzare il quando. Passaggi di tempo, dalla staticità fotografica al divenire audiovisivo, in sintonia, in sincronia, con il bisogno di esprimersi su se stessi, sul proprio sguardo, sulla conoscenza che torna in singhiozzi, in diapositive in grado di unire il reale, le Alpi, alla realtà che si manifesta nella memoria come la morte di un amico mai dimenticato. Un cinema che è bisogno di esprimersi sulla poesia, dapprima studiata e mai abbandonata, del poeta di Marradi, sulle letture, amiche e nemiche; da quel cielo contenuto come un soffitto di una caverna tratto dal Paese dei ciechi di Wells, ai fantasmi che ci circondano, che non abbiamo ancora conosciuto ma che ugualmente esistono, o che sono esistiti, che adesso vivono nella nostra immaginazione. Viaggi di spiriti in partenza senza un ritorno, dal loro Paese natio fino ad Aleppo, fantasmi come soffi di vento che la montagna ricorda e che l’immagine, la parola, sa riconsegnarci. Viaggio a Montevideo è partire ben consapevoli che la propria anima ci sta seguendo, anima della poesia che attraversa i monti, che feconda nuove suggestioni, dove il corpo non è più carne ma pensiero, dove l’apparecchio cinematografico si è liberato dalla sua confezione di circuiti, di lenti, di ottiche, di sensori fotografici, dimenticandosi della sua natura digitale, librando e liberando così il suo sguardo, la sua luce, il suo colore. E’ un cinema sensorio, che ha superato la necessità della testimonianza, un cinema che riesce a fare a meno del testimone orale di Dal ritorno, un cinema che inizia un nuovo viaggio, acquistando in immensità, ben oltre la parola, dove il racconto non è più rimembranza ma trasfigurazione dell’anima, un movimento perpetuo che si muove fluttuando tra l’avanti e l’indietro, viaggiando oltre le barriere di un carcere appena sognato, salendo di valle in valle, verso il paradiso, tra le nuvole che nascondono le vette di una Pampa tanto vera quanto solamente immaginata. E se per Godard l’abbandono del linguaggio coincide con la necessità di fuggire la sintassi, quella grammatica che si definisce in senso dimenticandosi della sua valenza sensoriale, stereoscopica, per Cioni il linguaggio abbandona il corpo, abbandona la carne, abbandona il meccanismo, abbandona ogni inscatolamento oggettivo diventando sguardo soggettivo, luce, poesia, suggestione. Frammenti di un cinema che riesce ad arrivare ovunque, al di là di ogni confine, un invito al viaggio, smaterializzato nello spleen di ogni poeta.