La mezza stagione
La quotidianità di tre personaggi in un luogo straniante dove tutto sembra immobile. Caputo costruisce, al suo esordio, una messa in scena caratterizzata da un acuto piglio documentaristico.
Primo lungometraggio del giovane regista Danilo Caputo, La mezza stagione descrive l’immobilità satura di tensione di un paese del Sud - di cui non viene svelato il nome – attraverso le vicende di tre personaggi. Carosina è una donna di mezza età che ha recentemente perso il padre, il quale la tormenta in sogno con la bizzarra e ossessiva richiesta di una camicia, tanto che la figlia domanderà, a quindici giorni dalla morte del genitore, di poterla mettere nella bara con il defunto. Cesare è un ragazzo che fa il portiere in un albergo dove è costretto a sopportare l’arroganza fastidiosa del suo datore di lavoro; sfiduciato e dubbioso, teme di dover mettere da parte le proprie aspirazioni di musicista. Il suo collega Giovanni, più grande di lui, è a dir poco esasperato dalla precarietà e dallo stress quotidiano.
Un senso di stasi soffocante, una religiosità onnipresente che impone sempre gli stessi riti e le medesime convenzioni, l’angosciante crisi economica sempre più palpabile ad appesantire tutto: il mondo inerte tratteggiato con acuto piglio documentaristico da Caputo sembra sul punto di affondare, di afflosciarsi definitivamente su se stesso. Tanto che in alcuni passaggi questo senso di disfacimento diviene quasi metafisico: l’uomo che straparla, inascoltato, del divino (comparendo sia al principio che al termine del film, come a disegnare una cornice che conchiude tutto); l’attesa di un misterioso, miracoloso guaritore che sta per arrivare in città; un bambino che viene trovato, vivo, dentro un cassonetto; ma anche quei campi lunghi nei quali prendono forma certi paesaggi ampi e piatti, che paiono semiaddormentati nella silenziosa calura.
Notevole e interessante è lo studio dei suoni e dei rumori, che passa attraverso l’interesse e il lavoro del personaggio di Cesare, e contribuisce non poco a determinare e plasmare la precisa, insolita atmosfera che caratterizza il racconto. Ma più di ogni altra cosa colpiscono la spontaneità e l’autenticità con cui la quotidianità dei protagonisti viene messa in scena, complice anche e soprattutto la recitazione degli attori in molti casi non professionisti. E’ proprio grazie a questo aspetto che le vicende raccontate, sebbene non disdegnino in alcuni momenti intriganti aperture all’onirico e al visionario, non cessano mai di essere vere, reali, concrete. Lontano da ogni presunzione, ma anzi con levità e cautela, Caputo raggiunge dunque prontamente, senza colpo ferire, proprio quello che spesso manca a certo cinema italiano contemporaneo, specie rispetto al contributo degli attori: la naturalezza. Ovvero l’elemento che sempre, al di là di tutto, finisce per determinare – o incrinare, se manca – la credibilità complessiva del film.
Se il titolo La mezza stagione rimanda a un’idea di incertezza e indeterminatezza, evocando una sorta di limbo, di dimensione sospesa, i personaggi che il regista descrive sono come stretti in una morsa, ammorbati da un senso di oppressione sottile eppure costante, che si palesa in un logorio giornaliero inesorabile: l’impossibilità di trovare un riscatto - lavorativo, economico, sociale - si sovrappone infatti a tutta una serie di fastidi quotidiani che si fanno metafora e spia di un malessere più profondo (come il karaoke notturno dei vicini di casa che, sommato al caldo infernale, impedisce di dormire o il caffè del bar perennemente disgustoso e imbevibile).
Essenziale e asciutto, Caputo ha dunque già trovato, al suo primo lungometraggio, una personale cifra stilistica, fatta di carrellate lunghe su scorci di agglomerati urbani che trasfigurano in non-luoghi malinconici e desolanti, o lunghi piani fissi in cui i personaggi si muovono colti nel tentativo disperato – e impossibile? - di far mutare una realtà che appare assurdamente mummificata e prosciugata.