Storie del dormiveglia
Luca Magi rintraccia rimpianti e fierezza di vite ai margini in un ricovero notturno del bolognese
Potremmo definire l’epoca frammentata, liquida, precaria e incerta che stiamo vivendo come l’età della distrazione. Tanti gli stimoli, troppi i suggerimenti, innumerevoli le scorciatoie a portata di mano ed ecco che “multi-tasking” si conferma come espressione fondamentale, metaforica ed emblematica, del nostro tempo. Uno stile di vita, una condizione esistenziale.
Distrarre, in latino, vuol dire separare. Il serio dal faceto, dunque, il superfluo dal necessario, il trascurabile dall’importante. C’è un motivo preciso se Luca Magi ha scelto non solo di assistere come operatore sociale gli ospiti del Rostam, ricovero notturno per senzatetto alla periferia di Bologna, ma anche di raccontare le loro storie di ultimi, disperati e rinnegati: si tratta dell’urgenza di ricongiungere, riunire, riordinare, rimettere insieme i pezzi di una società che tende invece a frantumare e disperdere gli elementi cardinali dell’esistenza.
Storie del dormiveglia è un’operazione catartica. Attraverso le testimonianze di ex rapinatori, ex carcerati senza futuro, madri nullatenenti i cui figli vengono dati in adozione alle famiglie italiane, giovani immigrati alla deriva e vagabondi da tutto il mondo che scelgono il nomadismo per sopravvivenza e forse anche per attitudine, il regista ci ricorda la nostra fortuna, le nostre comfort-zone, la preziosa capacità di poter scegliere e cambiare. È il “noi” e il “loro” il campo/controcampo del documentario: noi protèsi sul futuro, loro condannati a fare i conti ogni giorno con un passato disgraziato.
Tutti raccontano le proprie avventure passate, confessano i crimini, gli errori e le disavventure ed è come se il Rostam fosse una sorta di purgatorio, un limbo sospeso in cui le anime vengono a purificarsi prima di ripartire per chissà dove, diretti verso chissà quale nuova periferia. Fa bene Magi a raccogliere il peso di queste coscienze perché solo così riesce proiettarci nell’universo di chi non ha avuto scampo.
E sembra scuoterci, Magi, quando ci mette di fronte a David, Paul, Leonardo, Alexandru e gli altri perché avvicina vertiginosamente la macchina da presa alle loro rughe, ai sorrisi, alle bocche sdentate e alle decine di sigarette aspirate con lentezza, ai caffè del distributore automatico mescolati come se si trattasse di un rituale sacro e irrinunciabile. Il “pathos di un notturno”, cantava qualcuno, perché tutto ciò è messo in scena quasi esclusivamente dal tramonto all’alba, tra l’interno e l’esterno della struttura ed è di notte che il regista raccoglie i barlumi di vita rimasta che gli interessano.
Storie del dormiveglia fa un gran lavoro con la luce naturale. Non c’è solo il buio rischiarato dai neon o dai lampioni di un cortile vuoto come il nulla, ma anche il sole che filtra tra i rami degli alberi nella radura circostante in cui i protagonisti si muovono per ribadire un legame immutabile: sembra che a strapiombo su uno stagno o amoreggiando su un prato, pur non allineandosi mai con le consuetudini etiche ed estetiche dell’occidente, i freaks del Rostam si riapproprino della natura ristabilendo un equilibrio con ciò che conta davvero.
Una certa simbologia, un certo indugiare sul controluce e sulla penombra e su come il chiarore componga e scomponga le geografie espressive dei volti ricorda la ricerca esistenziale di Terrence Malik e non è un caso, dato che anche qui l’intento dell’opera sembra ridurre al minimo gli orpelli per concentrarsi sia sull’essenziale sia sul rapporto uomo/natura.