The Palace

di Roman Polanski

Polanski e Skolimowski si improvvisano chirurghi plastici e tendendo le immagini in una trazione assieme virtuale e plastica, materica e volatile, mettono in scena la forma simbolica del nuovo aggressivo capitalismo finanziario.

The Palace - recensione film polanski

Quando Woody Allen fece la sua famigerata escursione turistica europea non si aspettò tempo per sollevare disappunto contro la fulminea e inspiegabile involuzione stilistica di un regista un tempo grande e intoccabile. Se in quel caso si fosse fatto uso meno timido della memoria critica e della teoria dell’autore, invece di demonizzarla come forma di miopia giustificatrice per appassionati autorialisti, probabilmente film come Vicky Cristina Barcelona, Midnight in Paris To Rome With Love sarebbero apparsi come critofilm sulle cinematografie nazionali ospitanti magari a tratti poco riusciti ma sicuramente lucidamente sperimentali: sciatti per scelta, per strategia argomentativa isomorfista e non per involontario risultato o peggio ancora improvviso spaesamento cognitivo - come si confà a un cineasta da sempre dichiaratamente (rivedere ancora una volta Zelig) interessato a usare lo stile in senso connotativo rispetto alla situazione di riferimento. Curiosamente l’ultimo film di Allen, girato in Francia, con attori francesi e in lingua francese ma senza la stangata linguistica delle passate immagini europee (il film poteva essere tranquillamente girato a New York e ragiona in effetti su tutt’altri toni grazie alla rodata collaborazione con Storaro), è stato accolto con calore dall'ultima mostra veneziana  Mentre i cori di disappunto sono stati tutti riservati a The Palace, l’ultimo film di Roman Polanski. Cori ancora una volta sostanziati dalla stessa rinnovata incredulità - Barbera non escluso - contro la presunta regressione stilistica di un senescente grande vecchio del cinema, colpevole di uno scivolone senza movente: “Come è possibile fare L’ufficiale e la spia e poi imbruttirsi così in questo cinepanettone trash proprio per niente riuscito?”. 

In questo caso per vederci chiaro non serve tanto la teoria dell’autore, che pare non avere più effetto, quanto la teoria degli autori. Sì, perché, se tutti si sono affrettati a riconoscere in Luca Barbareschi (già, comunque, presente anche nel dramma su Dreyfuss) non tanto un partner produttivo quanto un corruttore di forme, quasi nessuno, almeno tra i detrattori, ha dato peso alla presenza in sceneggiatura (assieme ad Ewa Piaskowska) di uno dei più importanti registi viventi, e cioè Jerzy Skolimowski. Eppure, che The Palace sia un film skolimowskiano lo si capisce subito, fin dalla prima inquadratura: un palloncino che velocemente si gonfia. Con questa scena, dettaglio apparentemente decorativo dei preparativi che un albergo sta allestendo per la grande festa dell’ultimo dell’anno del 1999, Polanski chiarisce che il film si articolerà secondo una pura tensione superficiale in espansione, prodotta dalla compressione degli eventi in uno spazio-tempo raccolto. Non però come nel suo cinema antiborghese, da sempre pronto a confinare la classe sociale in introversi spazi chiaroscurali, stretti in un tratto tutto metaforico, bensì come nel cinema del connazionale, e cioè con le misura di un film interessato al paradossale rapporto tra materia e movimento, o meglio, all’illusione di movimento come forma di nascondimento della materia.  Polanski accoglie la teoria della tensione superficiale skolimowskiana e come un folle chirurgo plastico piega e tende le immagini verso una cinetica in cui ogni immagine si somma e si annulla sull’altra con foga.

palace rece

Il moto perpetuo capace di far sembrare volatile e inconsistente ogni figura fisica, ogni incastro drammaturgico, non ha niente che a vedere con la retorica comica – nemmeno nel luogo della gag grottesca, sempre annullata di ogni presunto (si direbbe östlundiano) effetto abrasivo ad uso e consumo di spettatori desiderosi di facile indignazione -, ma piuttosto con una forma di onesto realismo documentario, simile al calco vivo di una realtà già di per sé troppo simbolica (e autoconsapevole) per essere ri-mediata nuovamente. Quale realtà però? Quella appunto della borghesia, sì, ma non più industriale, bensì quella nuova e molto più aggressiva propria della ricchezza finanziaria. Polanski e Skolimowski allineano le immagini alle stesse esatte condizioni d’espressione dell’economia cardine del nuovo secolo, e cioè a un sistema di pensiero economico che per nascondere la propria gretta natura materialista e meccanica si presenta volatile e senza peso, invisibile e senza grinze, liscio e levigato, e soprattutto senza residuo fisico – non è un caso che nel film si generino continuamente problemi escatologici di natura corporea, dalle feci di cane a cadaveri trafugati, e che tutto l’impegno della solerte hôtellerie sia direzionato a evaderli e nasconderli. A essere documentata qui comunque è più nello specifico la tensione inflazionistica della particolare bolla finanziaria nata con l’improvviso avvento di Putin al governo – il film ancora una volta non bada a schermare nulla, e porta tutto in superficie alla visione, trasmettendo il vero discorso del futuro capo di stato alla vigilia dell’ultimo dell’anno – o meglio della bolla nata con la transizione economica postsocialista (davvero siglata con l’elezione putiniana) da un’economia pianificata a un’economia capitalistica liberale e soprattutto disponibile alla privatizzazione del capitale di stato. 

È questa bolla a essere formalmente riprodotta attraverso un continuo rigonfiamento senza sosta e senza scoppio (come dichiara anche la finta pistola accendino che chiude il film), in accordo a una delle principali linee narrative. Non quella dell’attesa spasmodica per il Millennium Bug (vero e proprio MacGuffin, niente di più che uno starnuto alfanumerico senza effetto), ma quella dei giovani gangster russi – già divertiti dalle dichiarazioni televisive di El’cin e Putin -, pronti a portare denaro al loro cliente, un corrotto ambasciatore connazionale. Quando arrivano depositando milioni in contanti nella grande cassaforte dell’hotel l’intento di Polanski a proposito non è ancora chiaro, ma lo diventa nelle scene in cui rapporti di forza tra il presunto dipendente di stato corrotto e i suoi galoppini armati si ribaltano a favore di quest’ultimi: per un caso l’ambasciatore rimane infatti chiuso dentro la suddetta cassaforte, mentre i gangster ne rimangono fuori con la propria parte dell’accordo. Scegliendo la rocambolesca nascita della contemporanea criminale oligarchia russa come accento finale di una lunga e disturbante onomatopea filmica del capitalismo finanziario, il regista polacco si concede a 90 anni un affondo psicologico nella forma simbolica neocapitalistica: nell’inconscio del palazzo, castello virtuale che si mostra esteriormente fatto di aria e niente (come annuncia un unico e decisivo campo lungo smaccatamente digitale), è chiuso dall’interno lo spettro che l’economico finanziario fa finta di dimenticare. E cioè il puro movimento meccanico (proprio per niente post-umano) di due animali che copulano mentre tutti hanno lasciato la festa. 

Autore: Leonardo Strano
Pubblicato il 30/09/2023
Italia 2023
Durata: 100 minuti

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