Best Wishes to All

di Yuta Shimotsu

Un incoraggiante esordio, che tenta di riportare nei radar produttivi e distributivi il J-horror, un genere che ormai da tempo si è lasciato alle spalle i fasti dei grandi autori, perdendosi nell’omologazione tematica e stilistica del contemporaneo. Miglior Regia al Monsters di Taranto.

Best wishes to all - recensione film

«Se la nostra felicità dipende da come gli altri ci vedono, come faremo a capire di essere davvero felici?».
Kotone Furukawa (tra i volti de Il gioco del destino e della fantasia di Hamaguchi) è una studentessa di infermieristica a un passo dalla laurea. Scappata dalla campagna, e dalla famiglia, un giorno riceve una chiamata dal padre che la prega di tornare nel paese in cui da piccola viveva con i nonni, nella casa in cui le primissime immagini del film prendono vita. Un ritorno a traumi infantili che la ragazza sembra non aver mai superato. Premiato per la miglior regia nel Concorso Internazionale Lungometraggi del Monsters Taranto Horror Film Festival, Best Wishes to All è il primo film Shimotsu Yuta.

Prodotto da Shimizu Takashi, il film sembra ripercorrere, almeno per la prima parte, i più classici stilemi del cinema horror giapponese dei primi anni 2000, quello più attento a elementi classici della vita quotidiana, in cui case infestate e fantasmi di ogni genere vengono messi da parte. Costola virtuosa dei V-Cinema (film straight to video), è del resto il cinema che rese famoso Shimizu con la rinomata serie Ju-on, la quale, proprio a inizio di millennio, segnò un modo di intendere, e produrre, film di genere nel mercato nipponico. Ovvero film televisivi, nella miglior accezione del termine, con pochissimo budget ma tantissime idee, in grado di invadere la sfera orrorifica del cinema trasformandone le più tipiche caratteristiche di genere (ereditate dal periodo 60-70 con capolavori come Onibaba e Kuroneko) e intercettando il cambiamento verso il digitale, a volte con largo anticipo, trasmutando paure ancestrali attualizzandole ai cambiamenti sociali di inizio millennio, integrandole e dilatandole per incontrare le nuove esigenze dello spettatore.
Come Creepy di Kurosawa Kiyoshi (2016), uno dei padri del nuovo cinema horror giapponese, anche il film di Shimotsu Yuta individua nella famiglia, e più in generale nella società consumistica, l’epicentro del malessere che sembra aleggiare in secondo piano – o dal fuori campo – in tutta la prima parte del film. Riuscendo quindi a trasformare la casa spesso epicentro di ogni male (appunto, Ju-on) in puro veicolo, mezzo attraverso il quale la famiglia è in grado di gettare le sue radici, espandendo il suo potere gentrificante verso luoghi ancora non contaminati dal consumismo. Se quindi la dimora era fondamentale nelle opere di Shimizu, in quanto la maledizione era parte stessa degli spazi familiari e ne permeava come un virus le pareti, nel film di Shimotsu la decentralizzazione del suo ruolo è appunto dovuta alla maggior consapevolezza, quasi come assunzione di responsabilità, della famiglia come portatrice di male.

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È con la seconda metà del film, divisione scandita da un colpo di scena che sancirà anche un cambio nell’approccio formale del regista, fino a quel momento estremamente rigoroso, che la decostruzione del genere prende forma.
Se inizialmente è nell’intangibilità del male che l’orrore prende forza e si alimenta, mano a mano che la protagonista prende consapevolezza delle sue radici e del segreto che si cela dietro alla mascherata perfezione familiare, il tutto si sposta su una dimensione più carnale e attenta all’importanza dei corpi che si muovono nella casa. È nell’impossibilità di slacciarsi dai legami familiari, che contagiano come un virus chiunque ne venga a contatto, che le mutazioni e metamorfosi fisiche e strutturali trovano origine: nel determinismo delle scelte del singolo, comandate da un percorso (forse) secolare da cui la protagonista non riesce a distaccarsi. Una condizione che la porterà anche ad annientare l’unica figura immune al fascino della perfezione. Un’epidemia, quella consumistica, che trova nei corpi il mezzo (non più la casa) necessario per espandersi, individuando nella felicità la nuova droga con cui stregare e guidare le azioni dell’uomo contemporaneo. Un sentimento fagocitato non tanto da una condizione personale del singolo, quanto più attraverso gli occhi e la bocca di un altro individuo. I sensi tramite cui viene incanalata e manifestata l’accettazione di noi stessi da parte di altre persone che fanno parte della nostra stessa sfera sociale (per non dire familiare): «se la nostra felicità dipende da come gli altri ci vedono, come faremo a capire di essere davvero felici?»

Così Best Wishes to All abbandona i canoni più elementari del j-horror per deragliare in quelli di un body horror di cronenberghiana memoria – le associazioni, soprattutto nel finale, con The Brood sono quanto mai evidenti – e provare così a inserirsi in un discorso tematico/produttivo/distributivo oltremodo saturo.  Formalmente Shimotsu si affida (e confida) alle lezioni stilistiche di Kurosawa Kiyoshi, soprattutto per quanto riguarda le scene in interni e l’orrore manifesto tra ciò che vediamo e il mistero (nel fuori campo). C’è anche una certa attenzione al ruolo del campo e controcampo, che ritrova forza e vigore teorico attraverso un’insistita frontalità della macchina da presa nei momenti di maggiore tensione. Le musiche sono invece la vera nota dolente del film, scolasticamente giustapposte in modo tale da guidare lo spettatore, laddove distorsioni sonore e accademici crescendo intaccano in minima parte la bontà di alcune scene. È proprio in questo suo modo di essere estremamente didascalico – con l’uso della colonna sonora come emblema – che il film trova le sue fallacie tematiche e formali. Un materiale che però, nonostante i limiti derivanti dall’essere un’opera prima – il film è tratto da un cortometraggio del 2021, e talvolta la sensazione di lungaggine si avverte – riescono a scalfire il nocciolo di un nuovo (o rinnovato) materiale da cui poter ripartire.

Insieme a New Religion di Kondo Keishi – con cui condivide il tema, almeno parzialmente, del body horror – il film di Shimotsu Yuta rappresenta un incoraggiante esordio, che tenta di riportare nei radar produttivi e distributivi il J-horror, un genere che ormai da tempo si è lasciato alle spalle i fasti dei grandi autori, perdendosi nell’omologazione tematica e stilistica del contemporaneo.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 28/11/2023
Regia: Yuta Shimotsu
Durata: 89 minuti

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