1992, 1993, 1994 – Incontro con gli autori
Raccontare i tre anni che cambiarono l’Italia: intervista a Stefano Sardo e Alessandro Fabbri, due degli autori della serie Sky prodotta da Wildside.
Saremmo disonesti se non riconoscessimo che la serialità italiana ha cominciato ad adeguarsi a standard internazionali nel momento in cui Sky ha deciso di investire nel genere. Da Romanzo criminale a Gomorra passando per Il miracolo, la rete satellitare ha indicato una via per percorrere la quale anche le reti generaliste hanno dovuto invertire la rotta (si pensi a Non uccidere, che con la trilogia formata da 1992, 1993 e 1994 condivide il regista Giuseppe Gagliardi, o a Rocco Schiavone e La mafia uccide solo d’estate). In questo panorama, 1992 nel 2015 si affacciò sugli schermi piuttosto in sordina (ponendosi sulla scia del clamore suscitato dal Gomorra di Sollima), rimbalzando nei social più per lo sbeffeggiante hashtag #daunideadistefanoaccorsi che per le sue qualità narrative. Che già c’erano, confermate nella seconda stagione ed esplose in una terza di grande eco mediatica e critica. Gli autori di questo exploit sono Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo che lavorano in perfetta armonia da La doppia ora di Giuseppe Capotondi (e oltre a 1992/1994 hanno scritto Il ragazzo invisibile e Il ragazzo invisibile – Seconda generazione di Gabriele Salvatores). Abbiamo intervistato Stefano Sardo (sarà indicato con le iniziali St. S., perché S.S. non fa un grande effetto) e Alessandro Fabbri (A.F.).
Dalla prima alla terza stagione, il destino di questa serie sembra aver seguito quello del credit “da un’idea di Stefano Accorsi”, da meme hashtag ironico che accompagnava 1992 alla considerazione “ah però questo Stefano Accorsi” di 1994. Avete avuto anche voi questa sensazione? E come siete stati coinvolti nel progetto? Vi ha contattati Stefano Accorsi dopo aver avuto l’idea?
St.S. – La sensazione è che la gente abbia avuto bisogno di tempo per capire il valore di questa operazione. 1992 era troppo ambiziosamente fuori dagli schemi per il panorama tv nazionale e ha diviso, prevedibilmente, ma poi il pubblico ha familiarizzato con la formula e in 1994 sono arrivati grandi elogi. Accorsi andò da Wildside nel 2011 dicendo che bisognava raccontare il ventennio 1990-2000 dalla parte di chi aveva vinto, “la peggio gioventù”. Era un’idea ancora piuttosto astratta, un’intenzione editoriale. Quando lui e Lorenzo Mieli, il produttore, ci chiesero di provare a svilupparla noi inventammo tutti i personaggi e soprattutto decidemmo di focalizzarci su un passo da serie invece che da mini-serie, come implicitamente suggeriva l’intenzione di Stefano. Decidemmo di dedicare ogni stagione a un anno solamente, invece che farne una sul ventennio. Insomma, senza nulla togliere alla spinta di Stefano, l’invenzione creativa è stata sulle nostre spalle. Lui è stato una sponda ideale nel processo ma dopo tutto il lavoro fatto devo ammettere che tutta quell’enfasi sul “da un’idea di” qualche volta ci ha fatto un po’ arricciare il naso.
A.F – Vero quello che dici: sebbene i risultati siano stati buoni fin da 1992 in termini di ascolti e di diffusione all’estero – la serie è stata venduta in circa 100 Paesi fin dalla prima stagione – anche noi abbiamo sentito che la percezione del pubblico e della critica (italiana, tengo a sottolineare) è cambiata anno dopo anno, arrivando a un più alto apprezzamento nella terza e ultima stagione. Credo che i motivi siano due: da una parte il pubblico ha “digerito” il concept, il nostro raccontare la storia d’Italia in un modo mai sperimentato prima; dall’altra, in 1994 abbiamo osato di più in termini di stile e struttura e questa scelta è stata premiata. È stato un bel finale per un viaggio iniziato nel 2011, quando ad Accorsi venne l’idea di raccontare gli ultimi vent’anni di storia del nostro Paese dal punto di vista dei vincenti, di chi aveva dominato l’Italia, ovvero il Centro-Destra. Si trattava di un’intenzione editoriale molto eccitante che Stefano ci propose insieme a Lorenzo Mieli, il produttore. A quel punto la palla passò a noi. E ci venne l’idea-chiave: non raccontare un intero ventennio, ma comprimere il tempo in un racconto anno per anno, nel triennio di rivoluzione che segnò il passaggio da Prima a Seconda Repubblica. Il sogno era riuscire a scrivere l’intera trilogia e se ci siamo riusciti è anche grazie alla fiducia che Wildside e Sky ci hanno dato.
La libertà creativa che traspare da 1994 rappresenta una novità sia rispetto al panorama della fiction italiana, sia alle precedenti due stagioni più vincolate alle vicende dei personaggi, con la Storia a fare da sfondo. In 1994, invece, la Storia si riprende il posto che le spetta e i personaggi diventano pedine. L’approccio alla materia è stato diverso dalla prima all’ultima stagione?
A.F. – L’approccio alla materia è stato lo stesso, inizialmente: solo che, in corso d’opera, abbiamo messo un altro vestito addosso allo stesso corpo, per così dire (e si tratta di un vestito parecchio diverso). C’era il desiderio comune, condiviso da noi, dalla produzione e dal network, di alzare l’asticella, rinnovando la forma del racconto per sorprendere il pubblico e continuare a divertirci senza adagiarci su schemi già rodati. Ci abbiamo provato e 1994 è il risultato. Ma in quest’ultima stagione non mi sembra che i personaggi diventino pedine, anzi sono ancora di più al centro del racconto rispetto a prima, la formula a “episodi verticali” ci ha permesso di andare più a fondo nell’esplorazione della loro psicologia e del loro destino. Forse gli eventi storici risaltano di più perché questa formula li valorizza maggiormente, così come i personaggi.
St.S. – Non sono d’accordo che la Storia sia stata rimessa davanti ai personaggi. Anzi la formula a mono-personaggio di 1994 ci ha permesso forse di raccontare più a fondo i nostri eroi di finzione, approfondendo le loro storie in episodi dedicati. Questa volta abbiamo scelto pochi momenti per raccontare un anno cruciale, ricchissimo di fatti importanti, e questo ha dato risalto ai singoli momenti scelti, è vero, ma sempre attraverso il punto di vista dei nostri personaggi. Forse ci ha avvantaggiato il fatto che senza Bibi e Pastore si è ridotto col tempo il parco personaggi. Sulla libertà è stata decisiva la spinta dell’editoriale di Sky e di Wildside, sono stati loro i primi a dirci di osare qualcosa di nuovo.
In generale l’Italia ha sempre fatto fatica a fare i conti con la propria Storia, nella finzione come nella realtà. Voi, con la chiusura/cesura di 1994, avete avuto il coraggio di rivelare che la Storia attuale è figlia di quella di 25 anni fa, giusto?
St.S. – Nel Paese più vecchio del mondo c’è un senso di immobilità inesorabile, in cui passato e presente a volte si confondono. Ci ha sorpreso a volte, mentre scrivevamo, vedere come la Storia si ripresentasse identica, trasformata in farsa, magari. A volte l’intenzione di citare il presente in filigrana era voluta, a volte l’effetto si è creato da sé, involontariamente. Quello che possiamo dire è che ci siamo presi delle libertà, nel trattare la Storia romanzandola, molto inusuali per le consuetudini del nostro audiovisivo.
A.F. – Credo che i semi del presente siano sempre nel passato. E questo, a livello di politica, è più vero che mai in Italia. L’Italia non fa i conti col passato: forse perché ne ha troppo alle spalle, un boccone talmente denso e pesante che ha rinunciato a digerirlo. Si tratta di uno dei temi entrati naturalmente nella serie, perché nasce dalla realtà delle cose. La storia continua a riproporsi, le risonanze tra l’oggi e quello che è accaduto 25 anni fa sono indubitabili. In questo, come narratori, l’Italia ci ha aiutato (come cittadini è un altro discorso…): immaginando la storia, abbiamo sempre sentito di toccare materia ancora viva e attuale.
L’apporto di tre nomi importanti del giornalismo, Aldo Cazzullo, Marco Damilano e Filippo Facci, è stato sicuramente importante. Come funzionava il rapporto con loro? Li consultavate a sceneggiatura completata o prima?
A.F. – Con loro, a dire il vero, non ci sono stati numerosi incontri, ma il loro apporto è stato prezioso per inquadrare alcuni eventi e illuminare momenti storici a livello di politica e di cronaca giudiziaria, soprattutto quando stavamo ideando la storia cercando, come sempre, di far collimare linee personali dei personaggi con fatti storici: la fase del soggetto di serie.
St.S. – Facci l’abbiamo incontrato una volta per 1993 ed è stato utile, per 1994 devo ammettere non l’abbiamo mai veramente sentito. Cazzullo non l’abbiamo mai incontrato, ricordo che ci mandò una mail di commenti. Marco Damilano è stato quello più partecipe, ma in tutta onestà parlando in generale si può dire che sono stati poco presenti tutti e tre, e dicendolo non credo che nessuno di loro sentirebbe sminuito il suo apporto. Erano dei numi tutelari, dei depositari del racconto dei fatti che potevamo consultare, un’opportunità a cui ricorrere. Se non l’abbiamo fatto di più forse è perché ormai conoscevamo la materia molto a fondo.
Le ispirazioni sono alte: dal walk&talk di matrice sorkiniana del primo episodio all’ormai celebre quinto episodio, un vero e proprio film a parte, l’equivalente dell’episodio musical ricorrente nella serialità americana. Prima che autori sarete spettatori, fan. Quali sono le vostre serie preferite, del passato e del presente?
St.S. – Io parlo per me. Fra le serie USA che mi hanno appassionato di più metto Mad Men numero uno, poi Breaking Bad, The Shield, Lost. Tra le recenti mi piacciono Euphoria, Billions, Halt & Catch Fire, Bojack Horseman e Fleabag.
A.F. – Le serie del passato più o meno recente che resteranno sempre nel mio cuore sono Mad Men, Breaking Bad, Boss (misconosciuta, ingiustamente!), The Shield, Twin Peaks: al di là del genere in cui si collocano e della quantità d’ispirazione che mi hanno dato, queste gemme dimostrano quanto coraggiose, innovative ed esaltanti possano essere le narrazioni seriali; diciamo che mi hanno convinto che, se vuoi essere un narratore oggi e vuoi raggiungere un vasto pubblico, le serie sono la forma principale con cui misurarsi. Tra le più recenti, sono impazzito per Mindhunter. E poi Succession. E The Crown.
Una curiosità: in nessuna stagione compare Gianfranco Fini e/o Alleanza Nazionale. È stata una scelta narrativa dettata da ragioni legali o un sofisticato escamotage per sancirne, a conti fatti, l’irrilevanza storica?
A.F. – No, nessun escamotage, abbiamo sentito fin dall’inizio che i personaggi che volevamo raccontare erano legati ai mondi di Forza Italia e della Lega, e siamo andati avanti così. Non c’è mai stato un motore di giudizio politico a innescare le nostre scelte.
St.S. – Quando scegli quale storia raccontare fai una scelta precisa, arbitraria e autoriale. La nostra scelta ci ha portato a non avere lo spazio per raccontare gli ex fascisti, ma non perché irrilevanti. Anzi, erano un territorio di racconto umano e politico molto interessante. Solo che avevamo ormai un’altra direzione e siamo rimasti fedeli a quella.
Come lavorate in gruppo? C’è un headwriter tra voi o un totale equilibrio nei ruoli?
St.S. – Totale equilibrio. Discutiamo tantissimo, poi ci dividiamo a scrivere, poi ci ritroviamo insieme a rileggere e correggere. Per questa stagione ci siamo divisi i personaggi e le puntate, pur firmando tutti assieme come nelle altre. Ma non ti dirò chi ha scritto cosa.
A.F. – Confermo. La fase centrale del lavoro è proprio quando siamo fisicamente insieme nella stessa stanza: tutto nasce dal nostro parlare insieme. Per settimane, mesi. Poi ci dividiamo i compiti di scrittura. E rileggiamo di nuovo tutti insieme.
E il rapporto coi registi? Siete stati chiamati a intervenire anche nel corso delle riprese?
A.F. – Sì, siamo stati sul set fin dalla prima stagione, in veste di produttori creativi oltre che di sceneggiatori. E sul set il nostro lavoro è andato in connubio con quello dei registi: Giuseppe Gagliardi che ha fatto un lavoro di grande personalità, secondo me, fin dalla prima stagione, determinando con intuito e precisione la “bibbia visiva” della serie; Gianluca Jodice che ha fatto la seconda regia in 1992, mettendo in scena molto bene pezzi di racconto importanti; e la new entry di 1994, Claudio Noce, che ha arricchito la serie col suo stile, in quest’ultima annata dove rinnovare e variare erano, come detto, i primi diktat artistici. Il nostro ruolo, sul set, era tutelare il senso del racconto e la coerenza dello sviluppo dei personaggi, in un confronto diretto e continuo sia coi registi che con gli attori, con cui, spesso, si è lavorato fino all’ultimo minuto sulla scrittura di scena. E’ stato intenso e meraviglioso perché c’era sempre la sensazione che tutti ce la stessero mettendo tutta. E perché, live, tre mestieri diversi ma necessari l’uno all’altro convivevano e si contaminavano a vicenda.
St.S. – Giuseppe, avendo fatto tutte e tre le stagioni, è quello che ci conosce meglio, con lui abbiamo un metodo di lavoro molto fluido e rispettoso. Coi tempi di ripresa serratissimi della tv, gli autori sul set servono a controllare che il racconto non perda dei pezzi importanti, e che i personaggi vivano al di fuori della pagina scritta. Per questo abbiamo sviluppato un dialogo importante con tutti i nostri meravigliosi attori.
Le scelte musicali sofisticatissime, a parte quelle diegetiche, appartengono a voi (visto che uno di voi è anche un noto musicista: Stefano Sardo, leader dei Mambassa n.d.r.) o sono dei registi Giuseppe Gagliardi e Claudio Noce?
St.S. – La maggior parte delle canzoni erano in sceneggiatura. In effetti forse conta il fatto che ero un musicista ma anche che essendo il più vecchio dei tre ero un compratore di dischi assiduo in quegli anni là: per questo ho fatto un po’ da consulente musicale non accreditato della serie. Preparavo una playlist spotify per ogni stagione, buttando dentro tutti i pezzi più belli dell’anno, poi man mano che scrivevamo andavamo a scegliere il brano giusto per ogni sequenza importante da quelle playlist. Ogni tanto Ludo suggeriva un pezzo, altre idee sono arrivate da Giogiò Franchini (Sunrise di Lanegan è un’idea sua) o da Claudio Noce, per le loro puntate. Giuseppe Gagliardi mi ha convinto a fare l’unica eccezione alla regola ferrea della serie (solo canzoni uscite nell’anno del titolo): in 1994 c’è The Universal dei Blur che è del ’95, ma stava troppo bene in quella scena. Ci sono anche rimpianti: canzoni che abbiamo a lungo inseguito senza successo, tipo quelle degli Oasis.
E ora l’equivalente per un’intervista di un finale telefonato: a cosa state lavorando?
A.F. – Noi tre abbiamo un progetto comune che dovremmo iniziare a sviluppare presto, un thriller intitolato Nemesi pieno di colpi di scena che ci piace moltissimo, prodotto da Indigo. Poi ognuno di noi ha i suoi bei progetti solisti. Io ho creato un’altra serie, un legal intitolato Il Processo diretto da Stefano Lodovichi, con Vittoria Puccini e Francesco Scianna, che sta per andare in onda su Mediaset. Sono al lavoro una serie per Sky tratta da un romanzo di grande successo (non posso ancora dire quale:) e sto per iniziare lo sviluppo di una serie internazionale per Amazon.
St.S. – Io da tempo sto lavorando a una serie period-horror italo-tedesca, che si chiama WOLFSBURG, un progetto a cui tengo tantissimo.