Red Rooms
Ricostruire il mondo partendo da uno sguardo. Riadattare le immagini a una realtà ormai fluida, mutevole, codificata come sequenza numerica all’interno di una stringa, dove tutto nasce e muore a portata di click. In un ambiente del genere, è ancora possibile un'ecologia del vedere? O, onnipotenti, guarderemo ogni cosa?
Kelly-Anne è una giovanissima e affermata modella, algida e imperturbabile nella sua spaventosa bellezza – «fai paura per quanto sei bella», le dirà un’amica – simbolo traslucido di una generazione che vive e respira su internet: «i soldi sono numeri, e io sono brava con quelli». Perché arricchirsi non è un problema: sedute di poker online, bitcoin, shooting fotografici, tutto le appartiene senza il minimo sforzo. Una fastidiosa routine che la separa dall’unica cosa che riesce a renderla partecipe di un mondo altrimenti sfocato e confinato alle sue spalle (insistiti e rivelatori i primi piani sul suo volto, in un ricorso quasi matematico a una minima profondità di campo): assistere ogni giorno alla morbosa (non solo per lei) ricerca della verità nel processo che vede imputato Ludovic Chevalier, presunto colpevole di tre efferati omicidi ai danni di altrettante ragazze.
La natura degli assassini è brutale, insostenibile per la macchina da presa: tre ragazze seviziate e riprese all’interno di camere rosse, luoghi “conosciuti” e famosi nel Dark Web (e anche qui il film risulta saldamente ancorato al contemporaneo, nel distinguere il Dark dal Deep Web, definizioni spesso fumose e mai chiarificatrici), sin dai visionari tempi di Videodrome. Ma se Cronenberg risulta tematicamente e formalmente (per lo meno a tratti) distante come riferimento, Red Rooms di Pascal Plante trova il suo spazio tra l’astrattismo e l’artificiosità di The Neon Demon e il mondo post-pandemico e quasi post-umano di Kimi. Perché se è attraverso il corpo – gli shooting di alta moda, i duri allenamenti etc. – che la protagonista si aggrappa alla realtà analogica e ai suoi riflessi che abitano lo spoglio ma funzionale appartamento, è nel dialogo con Guenievre, intelligenza artificiale confezionata e adattata su misura, che Kelly-Anne riesce in qualche modo a non perdere contatto con sé stessa. Emblematica la domanda che pone all’AI durante una serata in compagnia di Clementine, l’altra ragazza che segue spasmodicamente il processo: «Guenievre, mi devo suicidare?» – proprio come il personaggio di Zoë Kravitz nel film di Soderbergh, eremita nella sua torre d’avorio perché simbioticamente collegata alla sua Intelligenza Artificiale.
È un film che vive di immagini, quello scritto e diretto da Plante, principali e di rimando. Dove il controcampo diventa soggetto delle scene, specchio di una mostruosità che non può essere svelata ma solamente accennata, dedotta. Ed è nelle urla dei parenti che visionano per la prima volta le bestialità subite dalle figlie che affrontiamo l’orrore, apice spettacolare di un pornografico gioco true crime che infesta talk show e dibattiti televisivi. Accorato argomento di discussione in grado di unire, anche solo momentaneamente, due persone così distanti come Kelly-Anne e Clementine. E sarà proprio la ricerca di un video mancante, tassello fondamentale che disvelerà la colpevolezza di Ludovic Chevalier, di un’immagine primaria che legherà ogni elemento in gioco, a permettere che Kelly-Anne si unisca al riflesso di sé. A un alter ego digitale che morbosamente assumerà le sembianze farsesche di una delle vittime, doppelgänger involontario figlio di un ossessivo viaggio verso la verità. Una rincorsa che culminerà in una singola scena madre, in una stanza inondata di rosso e del frutto delle ricerche di Kelly, che prende forma sul suo viso. Una cinica freddezza che trova riscontro formale nella messa in scena di Plante, chirurgica nelle geometrie durante il processo, ma mutevole e costruita su immagini di rimando (telecamere di sorveglianza, schermi di pc e cellulari) quando Kelly si trova a vivere “al di fuori” della finzione.
Ed è proprio nel suo dialogo con la realtà-altra, quella del digitale, ormai vera e propria linea parallela con il mondo fenomenico, che il film assume un’estrema importanza. Nel sorpassare la pura e semplice critica ai talk show – elemento che rimane comunque interno al film, con il personaggio di Clementine che passa dall’inveire in diretta TV al diventare soggetto ella stessa di un programma di gossip – per portare il tutto su un altro livello di consapevolezza del contemporaneo.