Splinters

di Natalia Garayalde

L'esordio della regista argentina Natalia Garayalde è documentario, atto d’accusa, cronaca di un disastro ma anche diario intimo e mosaico di memorie privatissime

Spinters/Esquirlas, Point Blank

Presentato in diversi festival internazionali, già premiato a Visions du Réel nel 2021 e, nei giorni scorsi, vincitore della seconda edizione di Inlauguna Film Festival, Splinters dell’argentina Natalia Garayalde è, insieme, testimonianza bruciante di un evento drammatico e vivida riflessione sul potenziale espressivo, evocativo e documentale dell’immagine.
Nel 1995, la regista è una ragazzina di dodici anni che, insieme al fratello, si diverte a girare brevi filmini di famiglia con la videocamera che il padre le ha regalato. Siamo, fin qui, nel territorio fascinosamente disarticolato e amabilmente nostalgico degli home movies: universo (semi)sommerso quanto sconfinato, che oggi, in contesti diversi (Home Movies – Bologna, Open Memory Box) ha recuperato importanti spazi di visione nell’ottica di un riconoscimento di valore che si traduce, finalmente, in tutela, archiviazione e condivisione. Parafrasando Susan Sontag, potremmo dire che gli home movies sono, ontologicamente, una pseudo-presenza – perché l’immagine che ci danza davanti agli occhi, sebbene “rappresentazione”, reclama tutto il suo portato di reale e autenticità – e l’indicazione di un’assenza, perché l’azione congiunta di ritrovamento-archiviazione ha sempre per oggetto un reperto, un residuato, un precipitato, qualcosa che è stato e che ora non è più: gli home movies - così intimi, spesso evocativi, fatti di immagini incerte e sequenze interrotte - sono il nostro passato perduto, o meglio, il passato perduto di qualcun altro, al cui sguardo sovrapponiamo però il nostro in un atto spontaneo e quasi magico di riconoscimento.
È entro queste coordinate che il lavoro di Garayalde prende forma, l’input sembra essere la volontà di far rivivere immagini giocosamente (o tragicamente) strappate alla quotidianità familiare di venti anni prima. La casa, il giardino, i pomeriggi assolati, una piccola piscina, i giochi con i fratelli. Basta sporgersi dal letto a testa in giù e ruotare la videocamera per restituire allo spettatore un mondo sottosopra, dove i capelli se ne stanno dritti sulla testa incuranti della forza di gravità.
Ma c’è un vhs, tra tutti quelli “ritrovati” dalla regista, capace di cambiare di segno l’intero racconto: Esplosione 1995. È questo, di fatto, il fulcro dell’intera operazione filmica, la testimonianza diretta di un evento terribile. La fabbrica di munizioni di Río Tercero (Córdoba, Argentina), dove Garayalde viveva insieme alla famiglia, esplose infatti devastando gran parte della città, causando morti e feriti, oltre a una invisibile fuoriuscita di sostanze tossiche le cui conseguenze, a distanza di anni, si riveleranno letali. Inizialmente imputata a uno sfortunato incidente, l’esplosione fu di fatto qualcosa di indicibilmente peggiore: una strage voluta, pianificata, un atto di distruzione necessario a occultare un traffico di armi internazionale, indirizzato verso l’Ecuador e la Croazia, all’epoca in guerra. La lotta per la verità – spudoratamente mistificata, negata - porterà i suoi frutti, ma soltanto a distanza di anni.

I frammenti (esquirlas) del titolo sono allora quelli dei filmati girati dalla regista bambina, brandelli di realtà, e al contempo, letteralmente, quelli di tutto ciò che è andato distrutto, e dei proiettili che ferendo hanno insinuato nei corpi il fosforo bianco.
Su tanta desolazione, si posa uno sguardo purissimo, ancora in parte protetto dal sentire fiducioso e fantasioso dell’infanzia. In strada solo fumo, rottami, il pianto di un bambino. Dentro casa, oggetti senza più vita gettati alla rinfusa sul pavimento: bisogna scegliere cosa salvare (i pesci rossi, un proiettile da tenere come souvenir?) e andare via. Ma c’è anche curiosità, adrenalina, stupore, perché la scuola è chiusa, le regole di sempre sono state miracolosamente sovvertite, ora si può entrare in classe passando attraverso la finestra, si possono indovinare le case tra le macerie, ipotizzare ricostruzioni, guardare il mondo di ieri senza riconoscerlo. Poi, man mano, la presa di coscienza, la cappa scura della morte silenziosa che tornerà, con il nome di cancro, anni e anni dopo.
Stupiscono la calma, l’asciuttezza e la sobrietà dello sguardo, la capacità di maneggiare senza esitazioni e tremori un materiale così caustico e velenoso. Forse, perché, come la regista racconta, a Río Tercero i bambini imparano presto a distinguere la campanella della ricreazione da quella che annuncia il rischio di fuoriuscita di sostanze chimiche e, come bravi soldatini, corrono a chiudere porte e finestre, sigillando diligentemente le fessure con il nastro adesivo.

Documentario, atto d’accusa, cronaca di un disastro ma anche diario intimo, mosaico di memorie privatissime, poesia fatta di immagini per gli affetti perduti: Splinters è un esordio che riesce mirabilmente a condensare, nella concisione dei suoi settanta minuti, un discorso stratificato e denso, che riguarda non solo l’oggetto di questo cinema (politico e insieme privato) ma anche e soprattutto il cinema come linguaggio.

Autore: Arianna Pagliara
Pubblicato il 01/09/2022
Argentina, 2020
Durata: 70 minuti

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