Remembering Every Night

di Yui Kiyohara

Visto in concorso al Inlaguna Film Festival, il film di Kiyohara si adagia troppo facilmente su elementi che il cinema giapponese negli anni ha ampiamente digerito e sorpassato, ma trova nella sincerità, propria e dei personaggi, il suo maggiore punto di forza.

Remembering Every Night - recensione film

Ultimi giorni di primavera, primi d’estate. Così Remembering Every Night, il secondo lungometraggio di Kiyohara Yui (visto in concorso al Inlaguna Film Festival - Festival Internazionale di Cinema Indipendente a Venezia) sembra rimanere sospeso nel tempo e nello spazio, dove le storie di tre donne si incontreranno e uniranno come piccoli pezzi di un enorme puzzle.

Tama New Town è il più grande complesso residenziale del Giappone, costruito nel 1965 e in grado di ospitare 200 mila anime, dislocate e suddivise in tanti quartieri, in una struttura urbana che genera delle piccole città nella Città. Ed è proprio qui che le vite delle tre protagoniste – Chizu (Kumi Hyodo), una disoccupata di mezza età; Sanae (Minami Oba), un’addetta comunale alla lettura del gas; e Natsu (Ai Mikami), studentessa universitaria – scivolano lentamente nei piccoli momenti quotidiani, tra bizzarre avventure e rimpianti passati. In un non-luogo che inghiotte e dimentica, sospeso in un limbo temporale senza fine, dove i ricordi appassiscono nel dedalo di strade tutte uguali. Come le memorie di un’anziana signora che da anni ormai vive da sola, i vecchi filmati dimenticati e mai sviluppati, le piccolezze che rievocano la nostalgia per un tempo in cui le storie di un quartiere trovavano la loro forza nella comunità, nell’unione e nella fiducia reciproca.
Non a caso, una delle prime immagini del film è un campo totale che inquadra un gruppo di amici intento ad assaporare le ultime brezze primaverili, all’ombra di un grande albero e al suono di una tastiera elettronica. Cimelio di un tempo perduto e simbolo di un collettivismo ormai sbiadito. Reminiscenze di universi alternativi, dove il ricordo di un gatto scomparso rievoca frammenti di vita familiare, manifesto di un Giappone, quello del boom economico post Seconda guerra mondiale – lo stesso complesso di Tama New Town (considerato una vera e propria altra-Tokyo) fu punto apicale dell’architettura urbanistica degli anni 60-70 –, ormai scomparso.

Ed è qua che sembra aleggiare il suggerimento a una dimensione altra, nei momenti anti-narrativi in cui la macchina da presa abbandona i personaggi alla ricerca di mondi ulteriori fuori dal quadro. O negli sguardi dei personaggi verso il fuori campo, persi a indagare e scoprire altri-noi. Universi analogici in cui provare a tornare in vita in un mondo post-pandemico, cercando di annullare quella distanza e quei silenzi che ideologicamente e concretamente si sono creati. Distanze generazionali che ricordano molto l’eredità dei film di Ozu, dove l’incomunicabilità diventava scontro e successiva riconciliazione (spesso ritrovata in un ritorno a determinati valori di un vecchio Giappone tradizionale). In Remembering Every Night appunto, le tre protagoniste assumono idealmente le varie fasi naturali di vita dell’essere umano, dove l’infanzia e l’adolescenza vengono rievocate attraverso racconti e filmati, mentre la vecchiaia con fugaci apparizioni di anziani abbandonati a loro stessi.

Il film è costruito sui raccordi di tanti campi lunghi e totali, un montaggio essenziale volto a risaltare ed evidenziare la solitudine delle protagoniste, spesso figure decentrate o squadernate. Le quali si perdono e ritrovano all’interno del quadro, accompagnate da motivetti extra-diegetici e rumori (diegetici) di vita quotidiana, colonna sonora del quartiere. E se alcuni momenti – come il ricordo del gatto scomparso che riaffiora da un vecchio filmato e che metaforicamente si lega alla nostalgia della regista per il mondo (sommerso) analogico, contrapposto a quello spersonalizzato e anonimo del digitale (lo stesso Tama New Town diventa simbolo dell’omologazione urbana), o il bel finale che riprende e prova a trasmutare, così come l’incipit, immagini già codificate e assimilate dal cinema di Ozu – risultano assolutamente degni di nota, è proprio l’esasperazione formale e l’eccessivo ricorso ai campi lungi (e totali) che porta lo spettatore ad allontanarsi dall’intimismo dei dilemmi delle tre protagoniste. Compromettendo, almeno parzialmente, la totale immersione nel flusso (anti) narrativo e contemplativo che permea il film per tutta la sua durata.

Un’opera che, come detto in precedenza, si adagia troppo facilmente su elementi che il cinema giapponese negli anni ha ampiamente digerito e sorpassato, ma che trova nella sincerità, propria e dei personaggi, il suo maggiore punto di forza.

Autore: Emanuele Polverino
Pubblicato il 05/12/2023
Giappone 2023
Regia: Yui Kiyohara
Durata: 116 minuti

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