Da Emmanuel Carrère a Jonathan Glazer, la comune immaginazione dell'orrore
"V13" e "La zona d'interesse", riflessioni incrociate sulla potenza devastante della visione negata.
Nel settembre del 2022 esce in Francia il nuovo libro di Emmanuel Carrère. Non è un romanzo, non è un saggio, è una meticolosa raccolta. Ogni mattina, per dieci mesi circa, lo scrittore – qui nelle vesti di giornalista inviato dal settimanale «Obs» - ha riferito le udienze del processo agli autori degli attentati terroristici avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, che tra il Bataclan, lo Stade de France e i bistrot presi di mira, hanno causato centotrenta morti e oltre trecento feriti.
Il suo libro dal titolo V13 arriva in Italia per i tipi di Adelphi e come riportato in quarta di copertina è il resoconto di «un processo che non sarà, come a volte si dice, la Norimberga del terrorismo: a Norimberga gli imputati erano alti dignitari nazisti, qui sono figure di secondo piano, dato che quelli che hanno ucciso sono morti». Dunque seduti tra i banchi non ci sono i Rudolf Hoess, ma gli inutili facilitatori, i fiancheggiatori talvolta inconsapevoli: il processo non consiste tanto nel riconoscimento e l'assegnazione di una colpa quanto nella restituzione ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica di uno scenario realistico di quanto accaduto, il più possibile senza buchi, senza spazi di ambiguità; una ricostruzione serrata delle motivazioni degli attentatori, del modus operandi della strage, di quanto era stato fatto per scongiurare i terribili accadimenti di quella notte maledetta. Un viaggio dentro e attorno all'orrore e allo spaesamento di una metropoli come Parigi, colpita al cuore, nuovamente, dopo i fatti di Charlie Hebdo. Non è questa la sede per stigmatizzare le falle di un sistema di sicurezza nazionale che avrebbe dovuto prevedere e contenere l'inferno (per questo rimandiamo al bel film di Cedric Jimenez, I cinque giorni dopo il Bataclan, racconto di una città mappata eppure sfuggente, dove l'occhio delle camere di sicurezza – estensione del controllo umano – mostrano i propri punti ciechi, la negazione della visione d'insieme, il limite dello sguardo) quanto per muoversi nel tempo cristallizzato generato dall'Ile de la Cite, dove è stata costruita un'enorme scatola di tamburato bianco (45 metri per 15) senza finestre e capace di contenere seicento persone. Lo spazio prefabbricato di un processo.
Ma cosa viene mostrato alle parti civili che partecipano al “processo del secolo”? Nel caso di Charlie Hebdo non ci si era risparmiati: foto scattate sulla scena dell'attentato, lo scempio dei corpi, l'intero video della sorveglianza con i fratelli Kouachi che spuntano fuori dal nulla, uccidono per un minuto e quarantanove secondi e fuggono via. Stavolta, invece, il presidente in accordo con gli agenti che per l'intera seconda settimana del V13 hanno proceduto alla meticolosa ricostruzione di quella sera, hanno compiuto la scelta opposta. Mostrare il minimo indispensabile: foto, ma da lontano; piantine; ambienti distrutti, ma vuoti; una quantità di “marcatori”, ma nessun corpo insanguinato. E poi un atto di sostituzione decisivo: al posto del materiale video disponibile un contributo audio (un frammento infinitesimale, appena 22 secondi delle due ore e 38 minuti incise su una piastra da uno spettatore che stava registrando il concerto al Bataclan). Perché? Per la giuria la mole di materiale raccolto, di testimonianze, di informazioni fornite nel tempo ai familiari delle vittime e all'opinione pubblica tutta, sono sufficienti a “dare un'idea” di quello che è successo. Un'idea talmente forte e chiara da far intuire l'abisso senza il suffragio delle immagini, senza la loro spietata assenza di ambiguità, arrivando al centro del dolore.
La zona d'interesse di Jonathan Glazer sembra farsi carico di questo azzardo. Non tanto e non solo sposando un punto di vista esterno al campo di concentramento di Auschwitz, frapponendo dunque un muro tra lo spettatore e l'orrore, ma concependo all'alba e al tramonto dell'opera gli estremi dello sguardo/visione. Le lettere bianche del titolo sprofondano nel nero della cornice e lo schermo resta così, inalterato, per due minuti e quattordici secondi. Nulla cambia a parte il suono che man mano cresce d'intensità spingendo lo spettatore a un lavoro di selezione: cogliere un ronzio, il canto lontano di un uccello, lo scorrere dell'acqua, il fruscio del vento. Quando l'immagine finalmente invade il campo già conosciamo il quadro raffigurato. Lo abbiamo ricostruito mentalmente. L'incipit scelto da Glazer è una dichiarazione d'intenti: vedere è superfluo quando abbiamo a disposizione gli strumenti per immaginare. In questo senso il dispositivo de La zona d'interesse compie una scelta che va ben oltre l'iniziale spaesamento/ribaltamento della messa in scena, in quanto le porzioni di spazio narrativizzate (quelle che descrivono la noiosa vita borghese della famiglia Hoess fatta di rituali, ripicche, gelosie, pasti e ore di sonno) convivono con le porzioni di puro spazio, non trasformate in ambienti, che trovano nel recinto del muro a un tempo il loro punto limite e la loro via di fuga. Se La zona d'interesse emerge dal buio più profondo per continuare a suggerire una visione superficiale di disturbo, l'unica opportunità di avere una prospettiva lucida sugli eventi non può che provenire dal futuro, da quello che non si è ancora fatto immagine, e che può essere colto solo attraverso una stra-visione (in senso kubrickiano): una luccicanza temporanea che filtra dallo spioncino di una porta che separa due secoli.
Glazer porta alle estreme conseguenze il modo di raccontare l'olocausto già proposto in tempi recenti da Il figlio di Saul di Laszlo Nemes e Austerlitz di Sergei Loznitsa: negarne la rappresentazione per metterne a fuoco il ruolo contemporaneo di luogo della memoria. Tenere la camera stretta sull'unico protagonista in campo (il sonderkommando Saul) sfocando o lasciando fuori dall'inquadratura l'azione intorno, o raccontare attraverso una serie di quadri fissi il turismo da campo di concentramento fatto di spuntini e selfie: i due gesti equivalgono all'erezione di un muro. Non è più tempo di costruire una drammaturgia attorno allo sterminio nazista degli ebrei quanto di testare la nostra disponibilità a scandalizzarci del vuoto. Di questo vuoto, che sarebbe lo spazio della contemplazione, abbiamo paura perché è l'esatto contrario del mondo che ci stiamo abituando a considerare: un territorio dove la disponibilità illimitata di immagini non ci permette più di provare a guardare oltre, a sentire altro, a fare tesoro del suono che arriva da lontano. Quello stesso vuoto che pare sorgere dalle viscere del corpo di Rudolf Hoess e lo costringe a fermarsi sulle scale appena uscito dal suo ufficio a Berlino per piegarsi e infine vomitare la sua stessa anima. La zona d'interesse è la banalità del male “condivisa” tra chi la mette in atto, chi l'accetta e chi l'osserva. Per sfuggire a questo appiattimento sull'orrore ci viene in soccorso proprio Hannah Arendt quando fa riferimento al concetto di “difficile appartenenza” e traccia il profilo dell'ebreo paria consapevole, di colui che si rende partecipe della comunità in cui vive preservando la capacità critica dell'outsider. Glazer e il suo film ci chiedono questo: di stare dentro un meccanismo, di accettarne le regole, nottetempo di minarne il campo, per non limitarci a demonizzare il passato, ma per cercare nel presente i segni di una sua restaurazione. Perché il tempo non è una linea che scivola in avanti, ma si muove in circolo, come il miracolo ingegneristico dei forni crematori, come la rosa che cresce splendida dalla cenere dei morti.
Siamo noi a scegliere da quale parte del giardino stare. Siamo noi a dover decifrare le visioni di Hoess: una finestra sul futuro o sul passato? Saperlo vedere (riconoscere) è il vero atto politico.