All This Victory
Il primo lungometraggio di Ahmad Ghossein, in competizione alla 34esima edizione della Sic di Venezia, mostra la guerra in Libano del 2006 attraverso la percezione dei civili che l'hanno subita sulla propria pelle.

Lo si scorge soprattutto nello sguardo, il terrore provato dai cinque protagonisti di All This Victory, film in competizione alla 34esima edizione della Settimana Internazionale della Critica, nell’ambito di Venezia76.
Negli occhi ipnotizzati dalla paura, imbambolati sul vuoto dell’abisso, svuotati di speranza e di luce. A provocarlo sono le bombe e i proiettili che Hezbollah e Israele si scambiano durante la seconda guerra israelo-libanese del 2006, uno dei tanti conflitti che dalla seconda metà degli anni ’70 dilania questa regione del Vicino Oriente.
Approfittando di una breve tregua, Marwan si sposta in un villaggio a sud del Paese, nella speranza di portar via con sé suo padre, ex combattente che continua a vivere ostinatamente in una zona minacciata dalla guerra. Ma le ostilità si riaccendono, le bombe riprendono a cadere e il giovane uomo si ritrova costretto a rifugiarsi in una casa con due anziani amici paterni e una coppia in attesa di un figlio. Nel frattempo la situazione si aggraverà con l’irruzione di un gruppo di soldati israeliani che attireranno il fuoco della controparte araba. Il gruppo è bloccato dietro quattro mura, ridotto alla fame, alla sete e al silenzio, atterrito dagli spari e dalla possibilità di essere scoperto dal nemico o colpito dal fuoco amico. Così non gli resta che rimanere rinchiuso finché all’esterno la situazione non tornerà alla normalità.
Attraverso un lavoro molto attento al sonoro e a un uso sapiente del fuoricampo, Ahmad Ghossein, alla sua prima regia di un lungometraggio, riesce a trasmettere con grande intensità i pericoli che attanagliano gli innocenti malcapitati. Non ha alcun bisogno di mostrare gli strumenti della distruzione: gli basta far risuonare il rumore sordo delle bombe, riprodurre gli scricchiolii e le vibrazioni provocate dalle detonazioni, dar voce al tamburellare metallico dei fucili d’assalto e delle mitragliatrici. Dei soldati sono sufficienti le ombre, i passi, il silenzio disorientante.
A Ghossein non interessa fare un discorso politico, attribuire colpe o ricostruire i motivi del conflitto. In All This Victory le spiegazioni latitano e domina il silenzio, interrotto da brevi dialoghi e dal frastuono delle armi. Non si vedono divise né schieramenti, e il pericolo è rappresentato allo stesso modo sia dallo straniero (gli israeliani) che dal conterraneo (i guerriglieri di Hezbollah che, inconsapevoli della presenza di altri arabi, attaccano l’area). Per gran parte del runtime il regista rimane ancorato ai volti degli intrappolati – soprattutto a quello di Marwan – affidando al taglio stretto dei primi piani il racconto del terrore provocato dalla guerra, come a voler sottolineare che l’unico modo possibile (o giusto) di raccontarla è attraverso la percezione delle vittime più incolpevoli, ovvero i civili.
Pochi sono i momenti in cui non sono inquadrati, occupati significativamente da immagini brulicanti di vita: brandelli di cielo, una lucertola nell’atto di respirare, il sorgere del sole. Una vitalità quasi elementare, essenziale, che non può certo cancellare la distruzione causata dalla stupidità umana. Cessato finalmente il fuoco, Marwan può sì uscire nuovamente allo scoperto, ma con gli occhi ridotti a pietre madide d’orrore, accecati dal trauma, vagando catatonicamente tra le macerie come qualcuno assorto nel ricordo d’un brutto sogno. Che potrebbe tornare ancora, e ancora.