Gloria mundi
Il cinema sociale di Guédiguian torna alla sua città di Marsiglia e guarda da vicino la crisi di una famiglia alle prese con le sfide del tardo capitalismo.
Dividi et impera. Come un virus ad alto rendimento il capitalismo si diffonde infettando, permea negli organismi con cui entra in contatto e da dentro disgrega, crea conflitto, disumanizza. Si moltiplica riproducendo l’immagine di sé, che impone come unica possibilità di organizzazione sociale. Come restare umani, all’interno di un realismo capitalista che sembra ormai fuori controllo? A otto anni da Le nevi del Kilimangiaro, Robert Guédiguian torna a raccontare il tessuto sociale di Marsiglia nel pieno dei suoi conflitti umani e delle tensioni generate dalle storture tardocapitaliste. Torna alla città che ama, la sua città, che da sempre è regina del suo cinema e ispirazione costante di uno sguardo politico che fa il paio, da una parte e l’altra della Manica, con il cinema di sociale di Ken Loach. Come per il regista inglese, anche per Guédiguian il cinema è anzitutto strumento per affrontare le contraddizioni e i traumi suscitati dal capitalismo; Gloria mundi, in particolare, porta questo discorso all’interno di una famiglia di cui racconta la crisi, il perdersi, quando la forza dei legali affettivi si sfalda e tutti i valori di riferimento iniziano a essere dettati da logiche di mercato e aspirazioni neoliberiste.
Sylvie e Richard sono due coniugi piccoloborghesi con due figlie: la prima, Mathilda, è nata dal precedente matrimonio di Sylvie e vive oggi in profonde difficoltà economiche; la seconda, Aurore, è sposata con il rampante Bruno, e assieme portano avanti un monte dei pegni in forte espansione. Mathilda ha appena dato alla luce la piccola Gloria, ma nella situazione di crisi in cui vive avrebbe bisogno di un forte appoggio dalla famiglia. Peccato che gli unici che possano veramente essere d’aiuto, Aurore e Bruno, preferiscano pensare al loro tornaconto piuttosto che rendersi disponibili.
Il taglio che divide la vecchia e nuova generazione di questo racconto famigliare è netto, chirurgico. Se i padri e le madri sono ancora in grado di alimentare sentimenti di solidarietà, empatia e affetto, e vivono pronti a caricarsi sulle spalle le responsabilità e i doveri che quei sentimenti vanno a comportare, i giovani raccontati da Guédiguian sembrano invece persi tra ingenuità estrema (Mathilda) o egoistico cinismo (Aurore e Bruno). Gloria mundi cerca in parte di riflettere la complessità del reale, ma per le poche volte che vi riesce (come nel tema dello sciopero che riguarda Sylvie) altrettante e più volte opta invece per un approccio manicheo, schietto, sicuramente militante e sentito ma anche ingenuo per come divide il mondo in due cercando soluzioni rappresentative semplice a problemi invece ben più articolati.
Per Guédiguian questa nuova generazione francese sembra davvero non avere scampo se non sperare nell’intervento salvifico dei padri, persa com’è tra edonismo, superficialità, distacco e sistematico egoismo. Piuttosto che riunirsi e fortificarsi attorno alla nuova nata, la famiglia di Gloria mundi si sfalda sotto il peso delle sfide economiche dei tempi, a cui non riesce a far fronte e che anzi fanno da innesco agli istinti più bassi della natura umana. Non è un caso che Guédiguian metta in bocca allo squallido personaggio di Bruno, darwinista sociale dalla morale spicciola, il nome di Macron come modello di impegno personale per la riuscita individuale. Guédiguian è evidentemente disgustato dalle derive politiche del suo paese, e preoccupato per la tenuta umana delle relazioni e dei legami che dovrebbero fare da rete in caso di avversità. Peccato però che per mettere in scena questo discorso di denuncia il regista francese faccia suo un approccio così schematico e semplicistico, macchinoso nello scioglimento narrativo e per di più messo in scena con un’enfasi a volte davvero fuori controllo (su tutte, la terribile scena del pre-finale). Peccato, perché quando invece il film si adagia sui corpi e volti che meglio conosce, sui personaggi della vecchia guardia incarnati da Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan e Arian Ascaride (vincitrice qui della Colpa Volpi), trova una cifra intima e sospesa che tanto riesce a dire del semplice affetto e della dignità umana.