Speciale MUBI / Hiroshima mon amour
Il capolavoro di Alain Resnais e Marguerite Duras è un viaggio audace nelle possibilità potenti ma limitate dell'immagine, residuo prezioso della memoria una volta che il presente è stato consumato.
Due corpi abbracciati sotto una pioggia atomica. A hard rain’s gonna fall: la fine del mondo sta per arrivare, ma non c’è da allarmarsi, perché il mondo è già finito una volta, e finirà ancora. Siamo nel 1959, 14 anni prima si concludeva la Seconda guerra mondiale lasciandosi alle spalle milioni di morti tra civili e soldati, i campi di concentramenti e poi quel giorno di agosto in cui sulla terra hanno fatto 10000 gradi in un secondo, 80000 morti in un secondo, una città, Hiroshima, spazzata via. Qualche giorno dopo, un’altra città polverizzata. Il mondo era finito, o meglio, sembrava finito, ma poi è tutto ricominciato daccapo, la vita, le persone, le gioie e i dolori, perfino la bomba atomica è ricominciata e anzi il pericolo di una catastrofe atomica sarebbe pesato sulla testa di chiunque per altri 40 anni. Ancora oggi sembra ancora di stare costantemente sull’orlo della fine: il riscaldamento globale, le pandemie, un sistema sociale al collasso. Pare che negli ultimi cento anni l’umanità non abbia fatto altro che confrontarsi con la possibilità che tutto venga distrutto per sempre e che la nostra razza scompaia dalla terra, eppure questo non ha fermato l’incessante mulinello dell’esistenza nelle sue piccole e grandi storie, non ha impedito una sopravvivenza ostinata, lucida e ottusa, basata sulle due forze opposte e potenti del ricordo e dell’oblio.
Ed ecco allora, Hiroshima Mon Amour, e questi due corpi stretti, incuranti della costante minaccia mortale, un uomo giapponese (Eiji Okada) e una donna francese (Emmanuelle Riva) che si sono incontrati nell’ex città distrutta e devastata di Hiroshima, si sono visti e si sono amati al primo sguardo. Sembrerebbe un’avventura clandestina come ne capitano ogni giorno, e difatti la donna deve già tornare a Parigi il giorno dopo, ma bastano 24 ore per fare di questo incontro fortuito un episodio fondamentale per la vita di entrambi. Come durante una terapia psicanalitica esce fuori un nome, Nevers, quasi un lapsus nella conversazione, il sintomo di uno spazio mentale che ha preso il posto di quello fisico. La donna non pensa mai a Nevers, dove è nata e ha vissuto la sua giovinezza: ma lo sogna molto spesso. Pian piano, come accade solo nelle sedute con lo psicologo e nei dialoghi più intimi con le persone fidate, la donna quasi in trance torna indietro a quel passato che è stato per moltissimo tempo un presente doloroso e ricorda l’evento che le ha cambiato la vita e ha iniziato a renderla la persona che è tuttora: la perdita del primo grande amore, proibito e immenso, per un soldato tedesco durante l’occupazione in Francia, col conseguente collasso mentale della ragazza, già brutalizzata e rasata a zero dai suoi compaesani per il tradimento commesso contro la patria. Con la perdita di quell’amore la ragazza vive la sua personale fine del mondo; il giorno in cui finalmente lascerà la casa familiare per sempre, gli abitanti di Hiroshima vivranno la loro personale apocalisse.
La devastazione che può provocare la fine di un amore, e quella provocata da un genocidio nucleare: sorvolando sulle diverse proporzioni, il concetto è il medesimo, come le questioni che avanza. Nel 1956 Alain Resnais aveva girato Notte e nebbia documentando l’orrore dei campi di concentramento nazisti, di modo che moltissime persone, che non ne sapevano nulla o ne avevano solo sentito parlare, poterono vedere coi loro occhi le tremende immagini dei cadaveri, dei sopravvissuti disumanizzati. Allora l’urgenza morale era quella di vedere, vedere per conoscere e ricordare, ma quando a Resnais venne proposto un progetto simile sul disastro atomico di Hiroshima il regista francese si oppone ed elaborò a sua volta una storia di finzione la cui sceneggiatura fu affidata alla scrittrice francese Marguerite Duras. L’episodio di Hiroshima divenne una parte in un discorso più ampio, che concerneva le universali esigenze, uguali e contrarie, del ricordo e della dimenticanza.
La donna vuole ricordare Hiroshima, vuole con tutte le sue forze sapere, conoscere, partecipare a un evento che non ha vissuto. Snocciola tutto ciò che ha visto e imparato, l’ospedale, il museo, le foto, i resti, i cinegiornali, per quanto nulla sia comparabile all’esperienza reale (tu non hai visto nulla a Hiroshima, le risponde l’uomo). D’altra parte il ricordo di Hiroshima si concretizza in questo niente materiale, perché tutto è stato spazzato via, e ciò che è rimasto è qualcosa di nuovo, di altro, disumano, mostruoso, i corpi deformi dei sopravvissuti e dei figli dei sopravvissuti. A noi spettatori poi, non rimangono altro che le immagini, immagini bidimensionali, immagini di immagini, la copia sbiadita e piatta di una tragedia umana. Del passato rimane sempre quest’altro che è cosa nuova (immagini, lampi, echi) rispetto al passato stesso. Anche il cinema talvolta è un figlio bastardo del passato. La tentata immedesimazione nelle disgrazie altrui è fallace e fallimentare, ma è tutto ciò che rimane a chi ha solo il compito di ricordare: sarà poi lo stesso amante giapponese, quando la donna racconterà la propria storia, a immedesimarsi nel soldato tedesco, parlandole in sua vece, pallida ombra rievocata in un corpo altrui. C’è qualcosa di profondamente erotico e romantico in questo dialogo fra due persone, una che ascolta e una che parla, che rivivono insieme il trauma di una catastrofe singola e collettiva, e anzi si cede volentieri al sospetto che questo rivelarsi dei personaggi non sia in qualche modo simile all’esperienza della scrittura, proprio perché poi sarà la stessa Marguerite Duras a ripetere l’atto in prima persona, raccontando ai propri lettori ne L’amante (1984) la storia di un altro amore proibito, quello fra lei adolescente e un facoltoso uomo giapponese in Indocina nel 1929.
L’iperbole assurda della bomba atomica si adatta bene all’iperbole melodrammatica della storia di un amore perduto. In fondo, tutti noi abbiamo vissuto queste catastrofi personali, talvolta simili a vere e proprie devastazioni dello spirito, macerie su cui si è dovuto ricostruire lo spazio mentale della propria esistenza. Un lutto, un abbandono, un esaurimento nervoso, il passato cristallizzato che affiora sotto forma di bagliori di memoria, un antico presente che nelle pieghe nascoste della coscienza continua ad accadere e accadere senza sosta. D’altra parte l’emozione della gioia, come del dolore, ha la qualità di invadere il tempo e lo spazio, ammantata del gusto di un eterno qui ed ora che nella sua assoluta novità seppellisce tutto ciò che vi era prima. Ogni idea del domani è solo una suggestione dell’adesso. Tu mi piaci. Che avvenimento. Tu mi piaci. Che languore all’improvviso. Che dolcezza. Tu non puoi sapere. Un’emozione che a viverla, vien da dedicarcisi tutta la vita e costruire templi e altari per farne una divinità, e invece poi bisogna staccarsene in gran parte per continuare a vivere altre esperienze che abbiano ancora il sapore di un nuovo adesso.
In Hiroshima mon amour i ricordi del passato sono sequenze mute, dove i personaggi non parlano, brevi momenti sconnessi da collegare mentalmente, così come scorrono nella memoria. Sono frammenti di un insieme che è già perduto, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre integralmente, perché il ricordo è una missione impossibile, che perde di continuo parti del suo essere. Ti dimenticherò, ti sto già dimenticando, urla Emmanuelle Riva, in una finale rassegnazione a questo problema irrisolvibile: dobbiamo ricordare perché le cose vissute mantengano il loro senso e il loro valore, ma dobbiamo dimenticare perché altrimenti non si può sopravvivere, andare avanti, ricominciare. Non c’è soluzione. Il passato rimane, ma sempre in un modo diverso da quel ci si aspetterebbe. Muore, perché il presente non può mai rivivere, ma lascia un cadavere vitale di immagini, suoni, sapori, percezioni che compongono i luoghi che abitiamo nella nostra mente, posti che pur senza riconoscerli, non cessiamo di visitare ogni giorno della nostra vita. Il tuo nome è Hiroshima. Sì, e il tuo nome è Nevers, Nevers in Francia.