Alizava
La solitudine di una bambina, un padre che si reincarna negli oggetti quotidiani, la memoria come patrimonio in lenta erosione: il vincitore del Premio della Giuria SNCCI a Pesaro 58.
Ci sono alcuni uomini, per lo più anziani, mani e volti scolpiti dalla polvere e dal tempo speso nel lavoro, che siedono in circolo su un terreno sabbioso; di quella terra uno di loro prende una manciata, se ne riempie le mani a coppa, la passa al suo vicino affinché faccia altrettanto e così via, circolarmente, in un gesto che si ripete uguale a sé stesso. Ma di mano in mano la terra che viene trasmessa diventa sempre meno, ogni passaggio ne erode la quantità, assottigliandola a pochi ultimi grani di sabbia. Come la memoria.
Alizava, mediometraggio d’esordio dell’artista lituano Andrius Žemaitis, inizia così, attraverso i gesti di un rituale antico in cui il passaggio della terra evoca la necessità di condividere la memoria nonostante ogni passaggio di consegne – dei ricordi, delle storie, della Storia – comporti in quanto tale una disgregazione e venir meno della forma mnestica delle cose. Nutrendosi di questa contraddizione il rituale finisce per generare processi di memoria alternativi, come l’evocazione del padre della protagonista, la piccola e bionda Alizava, il cui genitore, per quanto scomparso, permane come presenza incarnandosi via via, sotto forma di voce narrante, negli oggetti che circondano la quotidianità nuova della figlia: una radio, un orologio, un vecchio cassettone colmo di lavori realizzati in una scuola popolata di fantasmi. Ogni transizione diventa il tentativo di un dialogo, di riattualizzare una presenza, di rientrare a far parte della vita orfana di Alizava, che adesso vive sola con uno dei suoi nonni, un massiccio operaio con il quale condivide il ventre di un’escavatrice divenuto casa e piccolo mondo a due. Attraverso la trasfigurazione delle forme e del tempo offerti dalle griglie del cinema sperimentale, Žemaitis mette per immagini il racconto della piccola Alizava e della sua solitudine, fino al momento in cui il rituale che ha risvegliato lo spirito del padre apre le porte ad altre voci, altri volti, spiriti che colmano un vuoto.
Vincitore del Premio della Giuria SNCCI alla 58° edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Alizava si muove lungo due linee che s’intrecciano, e dal cui incontro, come fosse la chiusura di un circuito elettrico, scaturisce il ritorno di questi fantasmi appartenenti a un passato indefinito. Lungo il percorso seguiamo la protagonista nella sua routine scolastica, nel suo abitare lo spazio che la circonda, trasfigurato in sede di giochi e balletti ed esplorazioni. Ma, nella lente posta da Žemaitis, la scuola di Alizava è un edificio vuoto popolato da vestigia del passato, che siano foto, insetti essiccati o carapaci, e degli altri bambini restano solo sedie vuote e cartellini nominali scritti a penna, mentre lo spazio circostante diventa una terra desolata, terrigna e fangosa, sventrata dai lavori di estrazione, e al cui centro domina la figura gargantuesca e meccanica di questa escavatrice-casa, ambiente baleniero il cui ventre è fatto di ingranaggi, ruote dentate e soffi di vapore. Una sorta di luna-park per Alizava e il nonno, che Žemaitis rappresenta con un gusto di decadenza fantascientifica e formalità grottesca che oscilla tra il Brazil di Terry Gilliam e l’animazione di Jan Švankmajer. Mentre l’esterno richiama Tarkovskij e la sua capacità di creare mondi altri partendo dalla natura e dal paesaggio modificato.
All’interno di queste coordinate, tra miniere di argilla che annullano l’identità dell’ambiente e spazi quotidiani che si svuotano e diventano museo delle tracce e delle memorie, Žemaitis incrocia i percorsi di padre e figlia e chiude con l’evocazione concreta del rimosso, del dimenticato, a partire da un balletto intitolato “Reincarnazione”. Il tutto attraverso immagini impresse su un magnifico 16mm, abitato dai contrasti innescati dalla chioma bionda di Alizava e il fango umido del terreno, la morbidezza della luce sospesa sugli oggetti e stanze vuote, e il ruvido senso del tempo stampato sul volto dei personaggi iniziali.