End Time And The Trajectories Of The Ancestors
A partire dagli spazi gamificati di Far Cry 5 e dall’identità smaterializzata dei nativi d’America, forse il primo esempio di Post Video Essay, di prodotto che riflette sullo spazio digitale che lo informa. Il passo è lucidissimo, lo sguardo impietoso e l’immagine digitale appare nuda, preda di tutte le sue inquietudini e contraddizioni.
Si parte da un relitto di repertorio. È un’intervista di Ted Koppel a Elizabeth Clare Prophet, leader spirituale fondatrice, nel 1975, della Chiesa Universale e Trionfante, una setta millenarista, i cui adepti, in piena Guerra Fredda, costruirono decine di bunker per sfuggire a quello che credevano essere un imminente conflitto nucleare. Lo spettatore, però, può soltanto ascoltare l’intervista. A fare da sfondo al dialogo ci sono infatti proprio le pareti di un bunker elaborato in digitale, quasi a voler rimarcare la paranoia evocata dalle parole della donna. È uno spazio claustrofobico che, da solo, è la scintilla che fa detonare la straordinaria densità concettuale di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, video essay in concorso alla 58° Mostra internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro attraverso cui Edwin Lo Yun Ting si interroga sulla storia del Montana e dei nativi americani, confrontandosi tanto con la cultura ancestrale del territorio quanto con il trauma della colonizzazione, con l’appropriazione culturale, con quell’estremismo religioso che proprio qui, nel profondo Sud, ha trovato terra fertile. Ma quello di Lo Yun Ting è soprattutto un Machinima, un film costruito a partire dalle risorse di Far Cry 5, sparatutto open-world in prima persona di Ubisoft, uscito nel 2019.
Non è, ovviamente, una scelta casuale. Non soltanto perché l’avventura del videogame si svolge in Montana ma anche perché il progetto Ubisoft vede il giocatore scontrarsi con il Reverendo Joseph Seed, un altro predicatore survivalista che punta all’apocalisse nucleare per creare una nuova società a immagine della sua setta. È proprio in uno dei suoi bunker che si trova lo spettatore nel prologo del progetto, uno spazio che diventa il centro di un vertiginoso ribaltamento in cui il digitale, più che modificare e/o nascondere le traiettorie del reale, le fa risaltare attraverso un lucido processo di demistificazione. Basta una sovrapposizione tra sonoro e immagini per tracciare un parallelo tra gaming e spazio reale, per svelare il ruolo di Joseph Seed come spauracchio di certi lati oscuri della cultura americana, che partono dal survivalismo religioso degli anni ’80 e arrivano, evidentemente, al movimento QAnon. Ha la struttura del video saggio “analogico”, End Time And The Trajectories Of The Ancestors, è fondato su interviste ed estratti audio, è intervallato da diapositive, dati, ma ragiona come un ambizioso video essay tutto post, pronto a mettere in discussione il suo stesso linguaggio. Perché il caos referenziale a cui assistiamo nel prologo del progetto, il contesto reale che emerge dallo spazio dei dati, è solo un sintomo di una sintassi digitale che non riesce più a stare al passo, a costituirsi come uno spazio libero, separato dal mondo reale e in grado di proteggere il retaggio culturale attraverso la sua essenziale funzione d’archivio.
Lo fa adottando uno sguardo affascinante proprio perché cinico e impietoso, contrapponendo, ad esempio, riflessioni sulla smaterializzazione dell’identità dei nativi americani alla ricostruzione, con fotografie ed estratti audio che si sovrappongono alle praterie digitali di Far Cry 5, di un rituale religioso indiano, riattraversato, tuttavia, dallo sguardo del colonizzatore americano. Il risultato è una sequenza di clamorosa lucidità, atto d’accusa contro l’appropriazione culturale bianca ma anche glaciale ammissione di quanto qualsiasi residuo legato a un’idea di cultura ancestrale sia ormai depotenziato proprio perché sublimato in un contesto digitale, dunque artefatto. End Time And The Trajectories Of The Ancestors traccia dunque con risolutezza i confini di uno spazio computazionale ideologicamente ambiguo, politicamente cristallizzato, colonizzato dalla whiteness e dall’estremismo dilagante.
Dove si situa la presenza umana in questo contesto così inquieto? Il progetto di Lo Yun Ting teorizza intelligentemente un nuovo tipo di spettatore/utente, inscindibile dallo “spazio giocato” di Far Cry, un “player”, a tal punto avvinto dalla dimensione digitale del videogame e dal linguaggio della gamification da assistere, subire, come muto testimone, la sequenza in cui Lo Yun Ting ricrea, in Far Cry 5, la distruzione dei territori del Montana da parte degli adepti di Seed (un’altra sovrapposizione, un altro sversamento, del reale nel mondo digitale, con i personaggi non giocanti che agiscono come delle eco dei conquistatori americani), ridotti a entità spersonalizzate. Si tratta del momento più leggibile (e forse narrativamente più debole) del progetto, ma è anche del segmento più radicale e denso di End Time And The Trajectories Of The Ancestors, un esorcismo dagli spettri della colonizzazione, che trasla nel mondo digitale un trauma reale ma anche un processo che non nasconde le sue spigolosità, la sensazione che sia comunque troppo tardi, che lo spazio computazionale non possa raddrizzare i torti, che, anzi, si corra il rischio di banalizzarne la portata.
È uno straordinario, forse unico, esempio di nichilismo digitale, quello espresso da Edwin Lo Yun Ting, talmente privo di qualsiasi via d’uscita che persino la chiamata alle armi dell’attivista Joseph Means, contro Cristoforo Colombo e i conquistatori americani, con cui si chiude il film, l’unica sequenza accompagnata da immagini reali, tra l’altro, finisce per essere “affogata” dallo spazio digitale, dalla sua sicurezza, dalla sua finzione.
A volte fatica a tenere insieme ogni sua traiettoria, a tratti rischia addirittura di girare a vuoto, catturato dalla cultura ancestrale degli indiani del Montana ma è un progetto affascinante proprio perché non ha paura di prendersi i suoi rischi, End Time And The Trajectories Of The Ancestors, di sfiorare la retorica, di soccombere ad un contesto molto più cupo delle attese, di apparire scostante allo spettatore, ma soprattutto, ovvio, di raccontare, forse per la prima volta in una forma così di confine, il tessuto profondo dello spazio digitale non voltando lo sguardo di fronte alle sue inquietudini e contraddizioni.