The Harbinger
L’ombra horror del Lockdown nel film di Andy Mitton, sospeso tra sogno e realtà.
Da sempre il genere umano si è dovuto confrontare con il concetto di mortalità, intimamente connesso con la paura dell’oblio e del non lasciare traccia nel mondo. Il costante bisogno di dare uno scopo alla propria esistenza ha generato religioni e miti che rispondessero a questa esigenza, nella continua, ineffabile, ricerca di un senso di questa transitorietà della vita. Da qui parte una rincorsa all’immortalità, raggiungibile attraverso un segno indelebile da lasciare a imperitura memoria del nostro passaggio, una traccia significativa e concreta che ricordi a quelli che rimangono che “noi siamo stati qui” e che le nostre azioni hanno fatto la differenza: il successo lavorativo ed economico, l’impatto sociale sulla cerchia familiare e amicale, l’influenza sulla comunità. Questo anelito a un lascito perdurante e significativo, che è un processo in continua costruzione, può essere improvvisamente e drammaticamente distrutto da un evento imperscrutabile e imprevisto come è stato l’avvento della pandemia da Covid-19 che ha travolto il mondo nel 2020 e che ha causato la morte di milioni di persone. Quale traccia hanno lasciato tutte queste persone?
Questa è la domanda di base da cui parte il regista e sceneggiatore Andy Mitton per imbastire la narrazione del suo secondo lungometraggio, The Harbinger, uscito nelle sale cinematografiche nel 2022. Per farlo sceglie di affidarsi al genere horror creando un doppio livello descrittivo, quello della realtà pandemica del Lockdown e quello di un classico mostro simbolico, un boogey-man che rappresenti la minaccia incombente e insensata della malattia. L’effetto dirompente del Lockdown, che ha costretto tutti noi, come la protagonista del film, alla reclusione forzata nelle nostre abitazioni, è riscontrabile anche nel cambiamento repentino di ampiezza degli spazi vivibili, che passano da un pianeta sconfinato alle quattro mura domestiche, le quali, a seconda dei casi, possono essere protettive o angoscianti.
La protagonista Monique da principio sceglie di isolarsi con il fratello e il padre nella casa di quest’ultimo, fuori città, creando insieme una bolla perfetta e idilliaca di cura e sicurezza: si festeggia il compleanno del padre, si puliscono meticolosamente le confezioni del cibo ritirato al supermercato, si ride e ci si dedica alle proprie passioni, come il disegno. A interrompere questa quiete fortemente voluta è una telefonata della vecchia amica Mavis, che chiede a Monique di andare a farle visita nel suo appartamento di New York; mossa da un debito di gratitudine, la protagonista si sente in dovere di abbandonare la bolla familiare e questo segnerà il suo destino.
Mavis è afflitta da un demone, l’harbinger del titolo, che, nella migliore tradizione horror à la Nightmare di Wes Craven, agisce attraverso i sogni - o incubi, piuttosto - delle persone, infettandone non solo il sonno, ma anche la veglia. Le due donne non riescono più a distinguere la realtà dal sogno, che si fondono in un confine sfumato dove l’orrore tangibile della pandemia si mescola con l’orrore onirico: non c’è più serenità, i luoghi reali e metaforici diventano prigioni dalle quali è impossibile evadere.
Lo scopo ultimo del mostro è quello di cancellare permanentemente dalle pagine della Storia l’esistenza delle persone perseguitate, non lasciando traccia alcuna del loro passaggio, neanche nelle persone care. Fotografie, ricordi, dati anagrafici, tutto viene rimosso dall’harbinger, il demone che si fa simbolo della nostra paura ancestrale dell’oblio. E per rappresentare questo nemico oscuro il regista sceglie, non a caso, di ricorrere all’iconografia del medico della peste con la tipica maschera a forma di becco, antesignana delle mascherine che hanno contraddistinto il nostro periodo pandemico. Chiunque è affetto da questa maledizione può infettare le persone che vi entrano in contatto, ricordando ancora una volta il Covid, in un continuo gioco di rimandi con la realtà.
Andy Mitton ha lavorato bene con i pochi mezzi economici a disposizione, sfruttando anzi a suo vantaggio questo limite nel riuscire a perturbare efficacemente lo spettatore senza fare ricorso a grandi effetti speciali. L’inquietudine generata dai sogni malevoli è resa attraverso l’indeterminatezza tra realtà e immaginazione, creando un labirinto dal quale è difficile uscire e che lascia disorientati e confusi. Eppure non si avverte mai realmente quella sensazione di claustrofobia che tanto avrebbe giovato alla narrazione, gli spazi non sembrano mai davvero soffocanti ed escludenti, come invece è stato per alcuni durante la pandemia. Anche la gestione del percorso diegetico non è esente da pecche, prima fra tutte una parte centrale del film che risulta meno incisiva rispetto al resto del racconto, che si conclude però con un plot twist ben riuscito.
Il merito di The Harbinger risiede certamente nell’essere capace di farsi interprete e cassa di risonanza di quei sentimenti condivisi da un’umanità intera durante quel periodo di lontananza forzata con il quale, forse, non abbiamo ancora debitamente fatto i conti, e soprattutto per quanto concerne tutte quelle persone che ci hanno abbandonato e la cui perdita non abbiamo ancora pienamente elaborato, ma che hanno però lasciato un’ombra tanto impalpabile e sfuggente, quanto dolorosamente indelebile nelle nostre esistenze.