Speciale MUBI / Between Fences
Tra giornalismo d’inchiesta, prodotto autoriale e docu-series si moltiplica la presenza del documentario sulle piattaforme OTT; tra le forme disponibili anche il reenacting trauma, visto attraverso il cinema israeliano di Avi Mograbi.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Alla luce del moltiplicarsi di nuove possibilità e modalità di fruizione nell’epoca post-mediale, il cinema documentario, da sempre ai margini del normale circuito di distribuzione in sala, ad eccezione di pochi autori, ha saputo attuare un profondo processo di riconfigurazione e ri-elaborazione dei propri contenuti così come delle modalità di rappresentazione. Il proliferarsi delle piattaforme streaming ha permesso alle produzioni documentarie, tendenzialmente relegate esclusivamente a una fruizione festivaliera, di intercettare un vastissimo pubblico potenziale. I due colossi, Netflix e Amazon, negli ultimissimi anni, hanno investito molto nelle produzioni documentaristiche, così come nelle docu-series, in particolar modo attinenti a temi legati all’attualità, questioni chiave del nostro tempo, trasformazioni socio-politiche, economiche e climatiche, coniugando racconto cinematografico e ricerca scientifica. La forma documentaria è diventata infatti imprescindibile anche per il giornalismo d’inchiesta, proponendo una ri-lettura della contemporaneità, molto spesso contro corrente rispetto alla visione e all’approccio privilegiati dai mezzi d’informazione di massa tradizionali, nonostante anche queste produzioni, legate inevitabilmente a un mittente, siano mosse da un intento propagandistico, attraverso una trasfigurazione strumentalizzata e sensazionalistica della realtà (si pensi ad esempio ai documentari che mostrano teatri di guerra come quello siriano o che cercano di evidenziare luci e ombre di figure politiche).
In controtendenza a determinate produzioni, che potremmo definire mainstream, a carattere più o meno informativo, MUBI promuove una riflessione intorno alle nuove forme, sperimentazioni, ibridismi, video-saggi, attraverso un corpus di opere che ri-mette in discussione la natura ontologica del cinema documentario, che ha sempre avuto uno spazio importante all’interno della piattaforma. Oltre alle retrospettive proposte, dal documentario scientifico di Jean Painlevé alla riflessione sulle forme del paesaggio e dell’urbanizzazione proposta da Heinz Emigholz, o alla revisione critica della storia a partire dalle immagini d’archivio di Sergei Loznitsa, all’interno del catalogo hanno trovato spazio anche le opere di Avi Mograbi, regista israeliano che nel corso della sua carriera ha cercato di investigare le molteplici contraddizioni che segnano il suo paese, un luogo estremamente diviso e divisivo in cui è difficile far cadere le barriere che lo accerchiano.
Il conflitto arabo-israeliano, da sempre il centro nevralgico da cui partono le riflessioni dell’autore, si arricchisce nell’ultimo film, Between Fences, di nuovi protagonisti. Mograbi decide di focalizzare infatti l’attenzione sul confine israelo-egiziano, attraversato ogni anno da migliaia di richiedenti asilo provenienti dall’Africa. All’origine del film c’è un laboratorio teatrale condotto dal regista Chen Alon con alcuni rifugiati ospitati nel centro di Holot, gestito dal Servizio Carcerario Israeliano, situato nel cuore del deserto del Negev. La struttura, aperta nel 2013 e chiusa nel 2018, in realtà risulta essere un vero e proprio centro di detenzione in cui vengono incarcerati i richiedenti asilo, provenienti principalmente dal Sudan e dall’Eritrea, prima di venir rimpatriati. Mograbi e Alon incontrano alcuni dei migranti, costretti a rimanere in questa sorte di limbo per mesi con la speranza di venir regolarizzati. I due registi si interrogano sulla dura realtà quotidiana a cui sono costretti gli “ospiti” del centro, le difficoltà che hanno nel processo di integrazione, all’interno di una nazione costituitasi proprio a partire da un fenomeno migratorio a seguito di genocidi e persecuzioni. È possibile condividere e far rivivere un certo tipo di esperienza, trasformando la recitazione in forma di testimonianza?
A partire da questo quesito, il film riflette sulla pratica del reenactment, ovvero una ricreazione di «actual people or events» (Winston, 1999, p. 163), una “fantasmatica” riconfigurazione storiografica audiovisiva (Nichols, 2008), come modalità di figurazione dell’esperienza traumatica. Il reenactment continua a mantenere un legame non tra quello che avviene davanti alla macchina da presa ma per la macchina da presa. Lo spazio diventa un palcoscenico. L’intento non è quello di raggiungere un determinato grado di verosimiglianza, quanto di mettere in scena una performance che ovviamente si discosta e si distingue rispetto all’evento passato ma che esplora il modo in cui questo agisce ancora sul presente e sulle memorie collettive e personali. Se da una parte il reenactment di un evento cerca di ricostruire il racconto del passato e l’ambientazione in maniera più attinente possibile al referente storico, reenactment as event assume la funzione epistemologica e storiografica nella creazione di un evento, prevedendo un processo formativo che riguarda «la dinamica tra l’atto performativo e l’atto di filmare come costitutivo e affettivo incontro in uno spazio e tempo condiviso» (Jasen, 2011, p. 65).
I richiedenti asilo assumono il ruolo di reenactors, nel momento in cui recuperano, ripetono le azioni, i gesti i movimenti che hanno segnato la propria esperienza. Queste tracce traumatiche assumono funzione di coordinate anamnesiche, memory triggers che cercano di far rivivere un certo tipo di esperienza allo spettatore nella dimensione presente. A emergere dunque è una memoria traumatica corporale, il corpo diventa strumento per re-interpretare il passato. Le stesse vittime ri-performano i gesti dei torturatori e dei loro carcerieri, dando indicazione, spiegando nei dettagli le privazioni a cui erano stati sottoposti. Occupando una posizione differente, un ruolo opposto nell’universo finzionale cinematografico, i sopravvissuti vivono l’esperienza traumatica attraverso una nuova prospettiva, similarmente a quanto avveniva anche in Ghost Hunting (2017) di Raed Andoni. La ripetizione del gesto, attraverso la testimonianza, intesa come atto linguistico performativo, avviene all’interno di un luogo spoglio, un magazzino poco fuori il centro di detenzione, che diventa teatro di posa. I migranti ri-mettono in scena le esperienze passate, i soprusi e le violenze che hanno segnato il proprio percorso fino a quel momento.
La ripetizione dei gesti e delle azioni non si ripresenta attraverso un atto compulsivo (acting out), ma promuovendo un esercizio consapevole per favorire un processo di rielaborazione cognitiva del trauma (working through), così come di restituzione di una coscienza post-traumatica, formando una contro-narrazione che riflette sulle modalità di costruzione, rappresentazione e attualizzazione del ricordo.
- S. Jasen, Reenactment as Event in Contemporary Cinema, Phd thesis, Cultural Mediations, Carleton, University Ottawa, 2011.
- B. Winston, Honest, Straightforward Re-enactment: The Staging of Reality, in K. Bakker (a cura di), Joris Ivens and the Documentary Context, Amsterdam, Amsterdam University Press, 1999, pp. 161-70.
- B. Nichols, Documentary Reenactment and the Fantasmatic Subject, «Critical Inquiry», vol. 35, 2008, pp. 72-89.