Berlin Syndrome
Un uomo, una donna, un appartamento: sotto le sembianze di un thriller da camera si cela un’articolata riflessione sul maschile e sul femminile
Un uomo, una donna, un ambiente circoscritto e sigillato: elementi-matrice di innumerevoli – e spesso pessimistici – racconti filmici, dagli “assedi” bertolucciani alle “scene matrimoniali” di Bergman, dai demoniaci appartamenti polanskiani alle alcove di morte di Wakamatsu o di ?shima; nemmeno a tutt’oggi mancano declinazioni più o meno riuscite di tale situazione archetipica, soprattutto grazie ai molti titoli horror in circolazione (in particolare, con lo sviluppo del cosiddetto torture porn), che ne esasperano le coordinate di base, estremizzandone i contenuti visuali e tematici.Berlin Syndrome – terzo lungometraggio di Cate Shortland, sintonizzato sulle disfunzioni del rapporto uomo-donna, così come accadeva al titolo d’esordio della regista australiana, Somersault (2004), sviluppa la spinosa materia trattata evitando compiacimenti spettacolari o truculenti, osservando le derive esistenziali ed emotive dei suoi personaggi senza scadere in moralismi o manicheismi, e infine rivelando uno sguardo empatico, partecipe, attento alle sfumature psicologiche e caratteriali delle figure coinvolte. Clare (Teresa Palmer), turista australiana in trasferta europea, conosce a Berlino il tedesco Andi (Max Riemelt), docente di lingua inglese. Una comune e romantica avventura di una notte assume ben presto i connotati di un morboso rapporto fra padrone e schiava, fra predatore e preda, visto che la ragazza viene tenuta segregata dall’uomo in un fatiscente caseggiato ubicato nella periferia della capitale tedesca, senza alcuna apparente possibilità di fuga.
La Shortland padroneggia con acume le componenti thriller del racconto, tratteggiando un’atmosfera malsana e ambigua, fatta di inquieti silenzi, di sguardi dispersi e interrogativi, di volti scavati dall’incertezza, mentre sul rapporto fra i due protagonisti aleggia lo spettro di un irrisolto e inafferrabile conflitto fra attrazione reciproca, diffidenza e paura dell’altro, un conflitto a cui fa riferimento il titolo, che allude, abbastanza scopertamente, alla “sindrome di Stoccolma” e alle sue latenti contraddizioni. La tensione narrativa ed emotiva si dispiega grazie all’armonizzazione di tali elementi e al sapiente utilizzo dell’ambiente urbano (mai banalmente cartolinesco o turistico, anzi, svuotato di quasi tutte le coordinate topografiche), così come, soprattutto, di quello domestico. Predomina una concezione spaziale frammentaria e sovente claustrofobica, riconducibile alla dicotomia interno/esterno, prigione/mondo, mentre, parallelamente, il tempo si liquefa e diventa incalcolabile, e nondimeno i segni del suo trascorrere diventano marchi indelebili sul volto della protagonista. Il calibrato dosaggio dei colpi di scena e degli scoppi di violenza chiude il cerchio di un lavoro che funziona efficacemente come thriller, sia pure con qualche lieve imperfezione in sede di sceneggiatura, ma che riesce anche ad oltrepassarne i cliché grazie alla sensibilità della regista, capace di scavare a fondo nelle istanze più profonde dei suoi personaggi (un plauso particolare anche ai due ottimi interpreti) per trarne un film-mondo, un racconto universale sull’uomo e sulla donna, ma anche sul Vecchio e sul Nuovo (rispetto ai quali Berlino rappresenta ben più di un semplice sfondo). Andi incarna la stanzialità, la stabilità, la gerarchia patriarcale (il nucleo familiare di Andi è composto da lui e dall’anziano padre, mentre la madre si è allontanata da tempo: da qui il probabile trauma che fa da sfondo alle turbe psichiche dell’uomo), la fissità dei ruoli domestici; Clare raffigura invece le dinamiche del viaggio, del nomadismo culturale e sentimentale, la consapevolezza del piacere e del dolore di scoprire, vedere, conoscere il Nuovo (continenti, città, persone, affetti), senza potervisi – e volervisi – aggrappare definitivamente. Colei che proviene dal Nuovo Mondo, infatti, è simbolo anche di una diversa mentalità, che riesce a fare i conti con l’effimero dell’esistenza e con gli esiti che ne conseguono, senza traumi, bensì semplicemente con la limpidezza di sguardo che contraddistingue gli esseri liberi, e comunque consapevoli delle rinunce e delle privazioni che la libertà stessa impone. Per Andi, invece, l’impossibilità di dominare i sentimenti e le scelte dei propri oggetti del desiderio (la madre, Clare) sfocia in un’ossessione di controllo parossistica e totalizzante, il cui fallimento coinciderebbe (e coinciderà) con la perdita del proprio ruolo sociale ed esistenziale, in breve, della propria identità.
La Shortland porta a compimento con successo il progetto di raccontare una storia cupa e allucinata – in cui la possibilità di un’esperienza tenera e struggente si tramuta in un incubo dai contorni maligni – e riesce anche nell’intento di renderla il paradigma del conflitto tra due mondi, tra due diversi atteggiamenti esistenziali, un conflitto in cui l’antropocentrismo (maschile) ormai in declino si deve arrendere dinanzi alla propria sopraggiunta perifericità.