Speciale MUBI / Fedora
Una corsa a capofitto tra spazi mentali, vertigine congelata che tenta di farci vacillare a ogni svolta. MUBI ci dà occasione di riscoprire il penultimo film di Billy Wilder, perla dimenticata e oggi cartina tornasole per riflettere sulla natura fluida del dispositivo cinematografico.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
«I am big. It’s the pictures that got small»
Come molti, non possiedo più un videoregistratore da una decina d’anni. In compenso non ho smesso di conservare le VHS di allora, che oggi occupano un modesto mobile del soggiorno (un tempo adibito a supporto per un giradischi, scomparso anch’esso). Tra queste, particolarmente cara e particolarmente consunta, riposa una copia di A qualcuno piace caldo, una delle prime fiamme del peccato della mia formazione cinefila. Film visto dozzine di volte da bambino, in compagnia di mia madre, e che ancora oggi ci lega molto. Grazie a lei, la scoperta della migliore Marylin di sempre, trascorrendo giorni tutt’altro che perduti in compagnia di Daphne-Lemmon e Josephine-Curtis. A pensarci bene, Billy Wilder è una presenza che scandisce varie tappe nella mia crescita di spettatore e studioso. Gloria Swanson arriva solo con l’adolescenza e già in piena epoca digitale, mentre appartengono a un’età molto più matura e agli albori dello streaming coatto punte di diamante come le tribolazioni del povero C.C. Baxter o il sublime e scalognato Fedora. A tutto ciò vanno ad aggiungersi, nel modo più irregolare possibile, recuperi in sala, DVD e passaggi televisivi. Vedere, rivedere, stravedere (per rifarmi a un incipit ghezziano). Difficile immaginare un panorama più ibrido e rizomatico. Impossibile, per un cinefilo cresciuto durante l’avvento del digitale e il disancoramento dell’opera dal luogo della sua fruizione, non prendere coscienza della fluidità che ha assunto la parola cinema nel suo dizionario (e lo dice comunque uno che non smetterà facilmente di esclamare «per fortuna l’ho visto in sala!»). Affatto trascurabile, quindi, riflettere su quanto questi mutamenti abbiano ripensato e continuino a ripensare le dinamiche affettive che ci legano al testo filmico.
L’avvento di MUBI si dimostra quanto mai puntuale intorno a questioni apertissime, soprattutto per la peculiarità della sua proposta di far dialogare presente e passato. Forse l’unica, nell’attuale panorama streaming, a tentare uno sconfinamento dall’impasse dicotomica nuovo/vecchio, eretici/ortodossi, apocalittici/integrati. Proprio il cinema di Wilder, scoperchiatore irrequieto con il piede sempre tra classicità e rinnovamento, funge allora da cartina tornasole di un discorso che guarda al cinema da una prospettiva sempre più mobile, irrimediabilmente decentrata. Quasi emblematico allora che tra le riscoperte della Videoteca MUBI faccia capolino proprio una perla semi-dimenticata come Fedora.
Flop passato in sordina con una distribuzione limitata – la piattaforma di Efe Cakarel lo ha ripresentato insieme a Fondazione Prada nel progetto Perfect Failures –, ignorato dalla critica dell’epoca, frainteso come programmatico canto del cigno dell’autore, il penultimo film del regista austriaco è anche una delle sue opere più estreme. Fantasmagoria di barocco decadentismo non tanto sull’ennesima, stucchevole “morte del cinema” quanto, se rivisto oggi e lasciato dialogare con il “gemello” Viale del tramonto, sulla natura straordinariamente mutevole di un dispositivo che in meno di un secolo ha dovuto reinventarsi svariate volte, come una luce trasversalmente puntata sulla sua pulsante plasmabilità. «Il cinema è un lutto perfetto, è l’esaltazione del lavoro del lutto», dirà all’inizio del nuovo millennio Derrida. Se però il cinema è, da sempre e in modo immanente, materia di fantasmi, confronto inevitabile con la morte – e dunque al tempo stesso incessante rielaborazione – lo è anche nella misura in cui ha dovuto nel tempo confrontarsi con le istanze mutevoli dell’industria.
Fedora è sotto ogni punto di vista un film liminale. Opera installata lungo una terra di confine e un tempo sospeso, solo all’apparenza imperniata su un sentimento di nostalgia passatista. In questa accezione allora il suo carattere funereo acquista pienamente senso. Da un lato le stoccate a un sistema produttivo (americano) trasformato dalla congerie della New Hollywood («Oggi comandano i giovani barbuti. Non hanno bisogno di copioni gli basta andare in giro con una camera a mano»), dall’altro, a posteriori, l’imminente fine di quella stessa epoca di libertà creativa che si sarebbe chiusa solo tre anni più tardi, nel 1981, con un altro, ben più eclatante fallimento commerciale a firma Michael Cimino. Nel mezzo, lo sguardo che l’esule Wilder, in rotta con le Major e ora alle prese con uno dei suoi pochi film interamente girati e prodotti in Europa (la United Artists subentra solo come distributore), rivolge disilluso a quella classicità hollywoodiana che lui stesso ha contribuito a rimodellare e insieme a minare («Che cos’è? Un copione? Sarà l’ennesima porcheria hollywoodiana»). La stessa carriera di Wilder, dopo l’accoglienza tiepida di Prima pagina, si trova dunque a metà anni Settanta a una svolta che, a fronte delle difficoltà nel reperire finanziamenti per un nuovo progetto, concede al regista l’occasione di osservare Hollywood dall’esterno, aggiornando la riflessione sui suoi miti e sulla loro caducità. E ancora, ennesima conferma della natura liminale di Fedora è il suo collocarsi alle soglie del decennio, gli anni ottanta, in cui come dice Malavasi «cambia il modo di cambiare il cinema», con l’integrazione sempre più determinante con gli altri media, per cui le trasformazioni che investono la posta ontologica del cinema saranno sempre meno dipendenti da fattori intrinseci al linguaggio e sempre più connesse a mutamenti di ordine mediale. Non è un caso che Fedora si apra con l’annuncio televisivo della morte della protagonista e la diretta del pellegrinaggio alla camera mortuaria, con le telecamere pronte a vampirizzare la cerimonia in un reale già ridotto a spettacolo ininterrotto.
Fedora è una vertigine congelata, una corsa a capofitto tra spazi mentali, moto paralizzato che tenta di farci vacillare a ogni svolta. Come in Viale del tramonto, è un film che abita una zona di sospensione precipitata al di là del tempo. Là il corpo senza vita di William Holden dipanava il lungo flashback del film, qui lo stesso attore nei panni del produttore Barry Detweiler riesuma in una camera mortuaria il suo ricordo della diva Fedora. Quello che segue – o anticipa – è la ricerca disperata di un ideale cinematografico a cui aggrapparsi in un momento di transizione, di un modello cui guardare nell’epoca in cui al contrario i modelli si sgretolano a beneficio dei simulacri. L’oggetto di questa ricerca, il mito di Fedora come chimera cinematografica, resta cristallizzata in immagine mentale, la cui oggettività è dunque implicitamente compromessa dal confinamento nella distanza a-temporale del ricordo. Dimensione, quella memoriale, che nel momento in cui la diva appare come manifestazione di quell’ideale vagheggiato (la magnifica scena della piscina di ninfee) acuisce la propria distanza attraverso il raddoppiamento della mise en abyme con un doppio flashback. Wilder porta così alle estreme conseguenze il discorso già intrapreso in passato e si confronta, con ottica più spiccatamente postmoderna, con l’annosa questione identitaria del cinema che proprio a partire da allora andrà complicando senza possibilità di ritorno il proprio quadro ontologico. Lo fa con un film aderente alla sensibilità contemporanea ma tutt’altro che impegnato a seguire mode e tendenze, operando semmai all’incrocio tra modernità e postmodernità. Perché Fedora è un film ancora troppo profondamente umano, ancora troppo legato ad una realtà che esiste oltre l’immagine cinematografica, e dunque ancora troppo struggente, per dirsi cinema postmoderno. Meglio di gran lunga chiamarlo cinema di frontiera.
Vedere, rivedere, stravedere. Oggi, «nell'epoca del simultaneo, nell'epoca della giustapposizione, nell'epoca del vicino e del lontano, del fianco a fianco, del disperso» (Foucault), proprio sul concetto di frontiera si gioca la partita di MUBI, ora che i mutamenti imposti dall’affermarsi delle piattaforme OTT subiscono il sollecito dell’emergenza sanitaria e dell’impatto che questa sta avendo sulla filiera distributiva, costretta a un ripensamento delle proprie modalità repentino ma ancora rapsodico, mentre molti esercenti nuotano nell’incertezza. Ora che insomma la situazione costringe a fare i conti, su più fronti, con l’evidenza opaca di un mutamento ben più traumatico rispetto a quello vissuto da Wilder, MUBI si innerva nel contesto guardando all’innovazione ma con un’offerta editoriale consapevole del panorama ancora multiforme in cui si inserisce, e dunque della resilienza di una fetta di pubblico cinefilo non solo ancora abituata e affezionata alla sala, ma anche ad una certa disciplina nei confronti delle immagini. Così allora la scelta di smarcarsi dal groviglio di Amazon, – dove i film vengono acquistati in blocco spesso senza definire una linea precisa (sovente capita di trovare veri e propri tesori solo spulciando a lungo nelle varie categorie) –, corredando invece i titoli con recensioni della rivista online Notebook e dando agli utenti la possibilità di commentare e lasciare le proprie recensioni, come in una sorta di cineforum virtuale. E ancora, l’uscita dalla logica della raccomandazione algoritmica, oltre alla fortuna, come si è visto, di poter scoprire o riscoprire film dimenticati, flop commerciali da rileggere in un contenitore più attento al loro inserimento e non per forza esclusivi di una piccola nicchia (mentre scrivo è appena entrato in cartellone Kundun di Scorsese). Insomma, in un panorama fremente ma incerto, MUBI offre senz’altro un’alternativa che tenta, pur guardando al futuro del cinema, di parlare in modo intelligente al suo passato, trovando un punto di incontro. A differenza di Fedora, non deve occultare la giovinezza delle proprie mani per fingersi ciò che non è, né come Norma Desmond vuole illudersi di vivere in un passato museale. Certo, anche il servizio di Cakarel non è esente da pecche. Una comunicazione più chiara sulla logica con cui alcuni titoli entrati nella Videoteca – che teoricamente dovrebbe essere permanente – sono invece soggetti a scadenza (Fedora infatti non è più disponibile), migliorerebbe l’offerta. Ma del resto, si sa, nessuno è perfetto.