Black Mountain Side
Omaggio canadese a "La cosa" di Carpenter: stessi elementi narrativi in una messa in scena volutamente anti-emotiva, che privilegia l’indagine fenomenologica dell’orrore.
Le terre impervie e poco praticate dal piede umano hanno non di rado costituito un considerevole stimolo, prima letterario e successivamente anche filmico, per racconti avventurosi o fantastici, talora intrisi di visioni allucinatorie, a loro volta prodromo del delinearsi di cosmologie alternative e destabilizzanti. Una peculiare seduzione è stata esercitata dai ghiacci antartici, situati nel continente più inospitale, quindi meno umanizzato, perciò più misterioso del pianeta. Il Polo Sud, col suo fascino di (non)luogo ai confini del mondo, ammantato di morte e mistero, funse da fonte di ispirazione per due fra i più grandi autori della narrativa fantastica dell’era moderna: Poe vi ambientò il suo unico romanzo, Le avventure di Arthur Gordon Pym (1838); Lovecraft vi collocò gli audaci esploratori de Le montagne della follia (1936), uno dei suoi racconti più lunghi e immaginifici (oltretutto, un dichiarato atto di riverenza al romanzo di Poe), nonché uno dei più ricchi di dettagli relativi alla mitologia dei Grandi Antichi. Dal punto di vista cinematografico, La cosa (1982) di Carpenter ha saputo cogliere con sagacia almeno alcune delle inquietanti visioni del “Solitario di Providence” contenute nel racconto summenzionato, pur essendo tale film debitore – trattandosi di un remake – innanzitutto de La cosa da un altro mondo (1951) di Nyby/Hawks, a sua volta trasposizione del racconto Who Goes There? di John Wood Campbell Jr. (pubblicato curiosamente nel 1938, perciò appena due anni dopo l’uscita de Le montagne della follia, e a quest’ultimo fortemente legato, non solo per l’ambientazione antartica).
Isolamento, solitudine, coesistenza forzata fra estranei, insorgere dagli abissi del tempo di una forza ancestrale, capace di catalizzare le energie negative e le peggiori pulsioni degli individui sottoposti al suo potere, sviluppandosi tramite un invisibile e irreversibile contagio, costituiscono i temi centrali de La cosa, e ritornano pressoché inalterati in Black Mountain Side, omaggio intelligente e tutt’altro che banale al capolavoro carpenteriano del regista canadese Nick Szostakiwskyj. Al suo esordio nel lungometraggio horror, Szostakiwskyj sceglie un’ambientazione congeniale alla sua provenienza (è nativo di Calgary) e alle sue intenzioni estetico-narrative, vale a dire le Monashee Mountains della British Columbia (la più occidentale delle province canadesi), e racconta le allucinanti peripezie di un gruppo eterogeneo di studiosi alla ricerca di manufatti e vestigia delle civiltà sviluppatesi nell’area. Non si tratta, indubbiamente, del Polo Sud, ma il freddo e la neve risultano egualmente i padroni incontrastati della zona, assieme all’incombere di una Natura primigenia e indomabile. Il rinvenimento di un’antichissima struttura architettonica, i cui resti rinviano a ipotesi in inquietante contraddizione con la storiografia consolidata, porterà nell’accampamento un morbo che si diffonderà nella piccola comunità attraverso i sintomi di un delirio ai confini con la follia, facendo precipitare gli eventi.
A differenza del modello carpenteriano, Black Mountain Side non presenta scosse rilevanti nel ritmo del racconto, privilegiando la sospensione, l’attesa, il dialogo fitto, a tratti tecnico-scientifico (come lo era in un altro titolo fondamentale di Carpenter: Il signore del male), e sviluppando una progressiva caduta nel baratro della demenza senza picchi di tensione, bensì mantenendo un perlopiù distaccato sguardo entomologico su tutti gli eventi narrati, anche i più truculenti.
Si tratta, evidentemente, di una precisa scelta stilistica, che sposa senza riserve l’a-patia – della messa in scena e parimenti della recitazione – come attitudine del racconto, il piano americano e la figura intera (o tutt’al più il campo lungo, come ad esempio nel finale) come giusta distanza dello sguardo, e il long take come cifra ritmica. In tal modo, la violenza e l’alienazione sono colte nella loro gestualità ed esteriorità, senza espedienti emotivi o psicologismi: una sorta di atteggiamento “documentaristico” e antropologico sullo sviluppo dell’insania in un gruppo di individui costretti all’isolamento forzato e al contatto con una realtà irriducibile al regno dell’umano e del razionale. Gli accadimenti risultano perciò più osservati che vissuti, più mostrati che dimostrati, e giocoforza l’immagine che ne scaturisce è priva di tensione, mentre quest’ultima alberga invece nel fuori campo, nelle profondità del bosco circostante, nel chiuso dell’animo di personaggi i cui gesti risultano perlopiù meccanici e ottusi. Solo la parola funge da sintomo dell’interiorità e delle sue sconnessioni. Intanto, un’entità primordiale e misteriosa (intelligentemente tenuta in penombra o resa “presente” tramite la sua voce acusmatica, roca, suadente e profonda), scaturente – forse – dalle rovine dissepolte, sembra impadronirsi irreversibilmente delle menti e dei corpi di quegli uomini.
Szostakiwskyj non costruisce personaggi che fungano da filtro identificativo/proiettivo per il pubblico, bensì abbozza semplicemente delle figures in a landscape, stilizzati manichini di morte e dissoluzione, costringendo lo spettatore a misurarsi direttamente con le proprie angosce archetipe e lasciandolo perciò sostanzialmente da solo – in una sorta di horror vacui dovuto all’assenza di eroi – di fronte all’incombere di una solitudine originaria, prefigurazione simbolica del destino finale di ogni uomo.