The Canal
L’orrore come doloroso moto dell’anima nel mirabile horror dell’irlandese Ivan Kavanagh, presentato al Torino Film Festival 2014
Quest\'anno la sezione After Hours del Torino Film Festival si è rivelata particolarmente prodiga nell’ambito del cinema di genere, con un un buon numero di pellicole horror, tra cui questo affascinante The Canal, quinto lungometraggio dell’irlandese Ivan Kavanagh. Il curriculum del cineasta è quantomeno interessante: dopo il corto d’esordio Bandage-Man (2003) approda al dramma con il pregevole The Solution (2007) e, nel medesimo anno, affronta l’orrorifico - di cui è fortemente appassionato - con Tin Can Man, ancora inedito da noi e assai acclamato dalla critica.
The Canal giunge a cinque anni di distanza dal drammatico The Fading Light (2009), ed è una pellicola che mescola gli elementi tipici dell’horror a un canovaccio narrativo "drama", quindi vicinissimo ai precedenti lavori del regista. Lo spunto è in apparenza semplice, al punto che lo si può definire classico: la casa vicino al canale, in cui molti anni prima si è verificato un raccapricciante fatto di sangue. Dunque, un tòpos tipico dei canoni orrorifici, che viene però rielaborato da Kavanagh in modo peculiare e, in primis, profondamente emotivo: David<(perfetto Rupert Evans) è un archivista cinematografico, sposato e con un bambino; visionando dei filmati dei primi del ‘900 scopre che nella sua dimora un uomo massacrò la famiglia, in preda alla gelosia verso la consorte. La presa di coscienza di David dei tradimenti della moglie è il fattore scatenante all’interno del plot, la miccia che porterà alla successiva esplosione degli eventi: già qui, dunque, si denota un detour dai classici patterns di genere, in quanto non è l’elemento sovrannaturale in sé a dar vita allo snodo del racconto, bensì un episodio emozionalmente sconvolgente.
La figura maschile è fragile, contrapposta a un femminile più forte, deciso, che controlla la situazione e causa sofferenza al proprio compagno, discostandosi dunque dal tradizionale quadro che vede la donna/vittima e l’uomo/carnefice. A detta dello stesso regista, la scelta di Rupert Evans per il ruolo di David è stata dettata dall’esigenza di donare determinate caratteristiche al personaggio: l’attore è di bell’aspetto, con un volto che trasmette dolcezza e dai tratti vagamente infantili. Il tutto crea un’empatia assoluta da parte dello spettatore, alimentata dal dubbio riguardante una presunta colpevolezza dell’uomo, ossessionato dallo spettro dell’uxoricida: ciò che vede o crede di vedere, è frutto di una patologia psichica oppure sta davvero avendo luogo? Questo è il quesito che dona la necessaria ambiguità al narrato, in un plot che vive di sfumature, spiazzando così chi si trova davanti allo schermo. Il detective McNamara (Steve Oram, già apprezzato in Killer in viaggio di Ben Wheatley) rappresenta l’incubo tangibile del protagonista, colui che è convinto della sua colpevolezza e non gli dà tregua; David è dunque in balia sia di un pericolo reale, rappresentato dalle indagini della polizia, che delle proprie visioni/incubi, che lo rendono sempre più debole, facendolo crollare sequenza dopo sequenza.
In The Canal, vi è una seconda unità-luogo di fondamentale importanza, oltre alla casa: un sordido bagno pubblico lungo il canale in cui David entra per caso, dopo che il figlio vi getta una pietra per vedere se “ci sono i fantasmi, come dicono a scuola”. Un posto raccapricciante nel senso più reale del termine, all’interno del quale chiunque avrebbe paura ad entrare per il timore di un’aggressione, che nelle menti infantili dei compagni di classe del piccolo Billy (Calum Heath) viene traslato in presenze non terrene. Gli spettri del toilet sono i demoni interiori di David e il luogo diventa una sorta di “Loggia Nera” per il personaggio, nell’ambito della quale il suo terrore prende forma.
Il finale richiama chiari echi polanskiani e non fa che alimentare la sensazione di incertezza, con un potere destabilizzante ormai raro nell’horror odierno.
Il film è infarcito di citazioni e amorevoli omaggi a quel cinema tanto amato da Kavanagh, dal capolavoro Suspense di Jack Clayton fino ai nostri Argento e Bava; una delle chiavi di volta della riuscita della pellicola risiede nell’attento lavoro sulla psicologia dei personaggi, David in primis, rendendola così fortemente “character-driven”, altra caratteristica ormai poco comune nel cinema di paura dei nostri giorni.
Nel film è evidente una passione per il filmico a 360°, nella scelta di attribuire al protagonista il ruolo di archivista cinematografico, dunque colui che si dedica allo studio e alla riorganizzazione di un cinema lontano nel tempo, che rischierebbe di andare perduto senza il suo contributo; assai peculiare ed azzeccato l’utilizzo di una macchina da presa del 1916, reperita tramite un collezionista e usata in determinate sequenze. Come spiegato dal regista, il digitale non avrebbe mai potuto rendere appieno l’effetto reale di quel tipo di riprese, e il risultato è quantomai notevole. Determinante, in The Canal, anche il ruolo del suono, fortemente destabilizzante, e del visivo che è pienamente funzionale ai moti dell’anima: la magnifica fotografia di Piers McGrail e il montaggio firmato da Robin Hill (ancora l’ombra di Ben Wheatley nel suo lavoro di editing per l’ormai cult Kill List) sono elementi cardine nel rendere appieno il senso di spaesamento e la fragilità assoluta del personaggio principale.
Un film che si discosta fortemente dai soliti prodotti fatti in serie, un horror ottimamente realizzato che prende vita grazie a intuizioni brillanti, scegliendo strade poco battute dal cinema di genere degli ultimi anni: una di quelle (poche) pellicole che fa davvero ben sperare in una nuova strada dell’orrorifico, ormai tristemente sacrificato all’interno di gabbie troppo anguste.