Apertura italiana alla Semaine de la Critique, cosa molto rara, con un film metà d’azione metà kammerspiel sulla mafia e contro la mafia, ambientato nelle periferie di Palermo, mai così acida nelle luci e senza orpelli cromatici, che ha appassionato molto, per le sue qualità visuali, formali e quindi morali, il comitato di selezione, ed è stato oggetto di lunghe discussioni, divisioni e dibattiti, a partire dalla prima pagina di Libé.
Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, che la rivista specializzata francese ha soprannominato “l’anti-Gomorra”, è infatti un film forse imperfetto nel congegno narrativo, e non sempre fluido e “melodico” nei raccordi, psicologicamente sottili, come sono, per format e per forza, anche i prodotti confezionati per “il mercato di qualità” (c’è anche Arte nel pacchetto produttivo che coinvolge la Torino Film Lab e la Film Commission siciliana), ma che, considerato il rigonfiamento di un mediometraggio, pulsa di vita anche nelle ripetizioni o nelle sospensioni impreviste e rifiuta l’oggettività, la distanza entomologica (per esempio quella di Matteo Garrone), pretendendo di entrare in campo, di dare risposte, di discutere con l’orizzonte morale dei personaggi, di mettersi dalla parte di chi a un certo punto rompe con l’accettazione della propria degradazione e subordinazione e ha il coraggio di evadere dalla comunità, di tradire, di fare detour fino all’inevitabile sacrificio finale. Inoltre, memore della lezione di Frammartino, tenta delle incursioni magico fiabesche, non senza rimandi rosselliniani, per giocare sul realismo altre carte. Forse per questo la qualità, la tensione della recitazione è straordinaria anche nelle piccole parti, si pensi al cameo di Luigi Di Cascio, figliol prodigo che ritorna nella sua Sicilia, e aggiunge all’affresco il ritratto di un pusillanime affettuoso fino all’affettazione, parente del killer.
Dal thriller al quasi miracolo il tragitto è inusuale. In un inizio alla Di Leo, uno spietato killer delle cosche (Saleh Bakri, un colosso, un misto di Schwarzenegger e Mohamed Bakri, l’attore palestinese biondo e dagli occhi azzurri) esegue senza obiezioni la sua missione. Uccisi i traditori (non tutti, qualcuno scappa) estorce a un sopravvissuto il nome del mandante. Freddato anche lui, come in un western all’italiana (in campo sono sia chi spara sia chi viene ucciso, anche se i registi hanno una trovata geniale per non essere accusati di volgarità sensazionalistica: sparano anche loro la ripresa alle spalle del killer…) Salvo chiude la partita, ma risparmia la figlia “cieca” (che però qualche ombra la vede, e poi non sopporta la luce…) dell’infame. A questo punto inizia un duplice tragitto di fuga dal proprio ruolo, sia del killer (che, in casa e fuori inizia a comportarsi stranamente) sia della ragazza che viene sequestrata in uno di quegli hangar da industria dismessa che non sono sfuggiti al pacchetto Monti sull’Imu, ma non uccisa come ordinato. Il film diventa a due, e riprende il filone del killer che si trasforma in giustiziere, mettendosi contro l’intera Organizzazione, che ha tanti antenati celebri, come Yul Brinner e Dennis Hopper (affascinato dalla sua preda, Jodie Foster, nel suo più bel film da regista). La “cecità” della ragazza a poco a poco che la storia d’amicizia e poi d’amore tra i due cresce, diminuisce. E lei diventa, prende luce, e possesso di uno spazio, prima accettato poi rifiutato, segno della propria estraneità ottica a quel mondo.
Sara Serraiocco dimostra doti gestuali squisite, da new dancer, e gioca molto bene con il suo vestito che è quasi una citazione di quello, Antrophologie, di Maria de Medeiros in Pulp Fiction, mentre Bakri aggiunge alla inusuale fisicità dell’attore d’azione una sottigliezza emozionale davvero sorprendente. Alla fine della tragedia il succo sembra quasi un motto di spirito. Come quando al cieco che chiede allo zoppo, così per iniziare la conversazione, “come va?”, lo zoppo risponde “come vedi?”