A Dark Song
Un piccolo gioiello dell’horror indie anglosassone, tra occultismo, vendetta e disperazione.
Vendetta e perdono: queste sono le tematiche fondamentali di A Dark Song, kammerspiel horror del 2016 scritto e diretto da Liam Gavin, co-produzione anglo-irlandese interamente girata in Irlanda. Un film anglosassone fino al midollo, dicotomico in tutto e per tutto: due personaggi estremamente diversi tra loro, il già citato conflitto tra sanguinosa vendetta e capacità di perdonare, il mondo interno alla casa drasticamente separato da quello esterno e l’ambiguità del dubbio perenne tra verità e menzogna.
Sophia (ottima Catherine Walker) è una donna benestante che non riesce a superare la disperazione per la morte del figlio di sette anni, avvenuta in circostanze tragiche: il bambino è stato infatti utilizzato come sacrificio umano da una setta di ragazzini, satanisti improvvisati, che l’hanno rapito approfittando di una sua fatale distrazione. Il senso di colpa misto al dolore porta la donna a prendere in affitto una vecchia casa al fine di poter celebrare un antico e oscuro rituale illustrato nel “Libro di Abramelin”, un testo di magia cabalistica tornato in auge nel XIX e XX secolo, dapprima con l’ordine esoterico della Golden Dawn e successivamente con il credo di Thelema fondato da Aleister Crowley. Il rito illustrato nel grimorio – della durata di ben 18 mesi - ha il fine ultimo di conoscere e conversare col proprio angelo custode ma, al tempo stesso, comporta l’evocazione di «dodici re e duchy degli inferi»: dunque, magia bianca e nera che si fondono. Per farsi aiutare nel suo intento Sophia contatta un occultista, Joseph Solomon (strepitoso Steve Oram), al quale svelerà un po’ alla volta i suoi veri intenti.
A Dark Song è un’opera fitta di dialoghi che unisce in sè il binomio iperrealismo/sovrannaturale. Gavin infatti lavora con grande cura sulle psicologie dei due protagonisti, rinchiusi nella casa per mesi e impossibilitati a uscirne: il rituale obbliga a circondare il luogo con un cerchio di sale, che non può essere valicato se non a rito terminato, pena il perenne imprigionamento tra quelle quattro mura. La prima parte del film analizza assai bene il rapporto che si instaura tra Sophia e Solomon, due personaggi apparentemente opposti: lei donna ricca e arrogante, che si rifiuta di perdonare e agogna una morte atroce per gli assassini del figlio, lui occultista “per amor di sapienza” (ma accetta la grossa somma di denaro offerta dalla donna), alcolista incallito e tossicodipendente occasionale. Il legame che si instaura è inizialmente conflittuale, in quanto Solomon considera Sophia una “posh girl” che gioca con la magia, mentre lei esplode in scatti d’ira nei momenti in cui rito pare non funzionare. In questa fase del film Gavin gioca di sottrazione, non mostrando nulla e incentrando tutto sulla componente dialogica nel rapporto di forza tra i due personaggi. Molte scene sono al buio e la fotografia realistica curata da Cathal Watters rende loro giustizia, nel creare quel senso d’angoscia proprio dell’orrore suggerito, come insegnava il grande Jacques Tourneur. Tuttavia mentre si avvicina il finale il plot cambia registro e l’opera mostra troppo in poco tempo: il rapporto tra Sophia e Solomon cambia ma in maniera eccessivamente improvvisa e il cotè sovrannaturale prende il sopravvento, lasciando lo spettatore a tratti interdetto. La chiusa del film è in realtà assai potente, nel mostrare la trasformazione interiore di Sophia, ma lo stacco tra le due modalità di rappresentazione è piuttosto forte e può causare un certo spiazzamento.
A Dark Song, nella sua tematica iniziale, mostra chiari rimandi al tv-movie a episodi Notte di morte, diretto dal grande Dan Curtis: nell’episodio “Bobby” vediamo una madre celebrare un rituale satanico al fine di riportare in vita il figlio. Del resto il dolore e la disperazione come motore di atti estremi e folli è argomento non nuovo nel piccolo e grande schermo, non solo di genere, ma un grande pregio del film di Gavin è quello di rendere ambigua la figura della madre, donna bugiarda e prepotente. Nel suo profondo dualismo ne esce un film forte e riflessivo, che nonostante qualche caduta riesce ad essere sinceramente emotivo, privo dei soliti, facili jump scares e con alcuni momenti realmente terrorizzanti: da recuperare e apprezzare anche per la sua originalità. Una menzione a parte per lo splendido e angosciante score minimale, firmato da Ray Harman.