Fratelli nemici - Close Enemies
Con lo sguardo volto alla scuola noir di Gray e Mann, David Oelhoffen dirige un polar denso di sfumature che forniscono ai suoi personaggi tragici un rivolo di speranza prima di precipitarli nel buio.
«Ricordi? Abbiamo attaccato la carta da parati insieme. Allora non mi piaceva, adesso mi manca».
Si tratta di una battuta pronunciata da Manuel nel momento in cui ritorna a casa dai genitori, con i quali ha un rapporto conflittuale. Il ragazzo fa parte di una comunità slava in una banlieue parigina che soffoca ogni possibilità di fuga. Le rapine e lo spaccio di droga sono all’ordine del giorno fino a quando la morte per omicidio del suo migliore amico lo spinge a rivolgersi a Driss, un investigatore della narcotici cresciuto nel suo stesso ambiente ma che è riuscito a passare all’altro lato della barricata. Chi è il mandante dell’omicidio? Tra marciapiedi ed appartamenti asfissianti, si consumano le fughe ed i regolamenti di conti di Manuel.
Con un occhio volto ad Heat di Michael Mann e l’altro a I padroni della notte di James Gray, David Oelhoffen plasma il suo Fratelli nemici - Close Enemies immergendo le dinamiche tradizionali del polar in un contesto sociale ed umano che ne arricchisce le sfumature e le fughe emotive. Risulta, a tal proposito, impressionante il contrasto tra la mascolinità ferina e criminale di Manuel nei momenti al cardiopalma e le pause di riflessione che consentono - anche allo spettatore - di tirare il fiato e respirare dopo gli inseguimenti in ambienti ad alveare che opprimono ogni possibilità di futuro. Eppure, qualcosa c’è. Le atmosfere tragiche consentono al film di trovare una sua dimensione emotiva e di registrare alcuni momenti di estrema potenza. Il dialogo tra genitori e figli da cui è stata estrapolata la frase iniziale ne è un esempio. La forza dei desideri e dei legami di un passato che non abbandona mai i suoi personaggi (e non è inopportuno pensare persino alla Boston eastwoodiana) supera le classiche distinzioni di legge e fuorilegge e restituisce un quadro in cui le piccole situazioni private si pongono come tasselli necessari di un mosaico molto più ampio.
Ci si trova davanti ad una gabbia riconoscibile dentro la quale, nonostante gli spazi ristretti, il regista e sceneggiatore riesce a muoversi con ampie falcate, a forzarne la struttura e ad aprire il suo noir al melodramma, dimostrando quanto sia necessaria una struttura di paletti e confini da poter forzare a proprio piacimento. E i sentimenti che hanno a che fare con gli esseri umani emergono, trasformandoli in divinità greche che sentono su di sé il peso di una disfatta inevitabile, illuminati da un controcampo infantile e femminile che, nonostante la parcellizzata presenza, dona speranza e possibilità di redenzione. Fino al finale, in cui l’inquadratura stretta sui due protagonisti si allarga fino ad abbracciare lo skyline di periferia, contenitore che consente ai suoi abitanti di sfiorare la superficie per poi precipitare rovinosamente, nel buio dei loro sensi di colpa e di un passato che è difficile da fugare.