Capri-Revolution
Martone chiude la sua riscrittura della giovane nazione Italia con il film che più si apre alla fede e alla necessità umana di credere in qualcosa, all'interno di una riflessione che abbraccia le grandi utopie del Novecento.
«Se ricerchiamo la vera origine della danza, se ritorniamo alla natura, troviamo che la danza del futuro è la danza del passato, la danza dell'eternità, che è sempre stata e sempre sarà la stessa. […] Solo i movimenti del corpo nudo possono essere completamente naturali. L'uomo, giunto al termine della civilizzazione, dovrà ritornare alla nudità: non alla nudità inconsapevole del selvaggio, ma a quella conscia e riconosciuta dell'uomo maturo, il cui corpo sarà l'espressione armoniosa della sua vita spirituale. […] Per questa ragione l'arte dei greci non è un'arte nazionale o tipica, ma è stata e sarà sempre l'arte di tutta l'umanità e di tutti i tempi. Quando allora io danzo a piedi nudi sulla terra, mi vengono spontanei gli atteggiamenti greci, proprio perché sono semplicemente atteggiamenti della natura»
Isadora Duncan – Lettere dalla danza
Spesso del Decamerone di Boccaccio, complice uno studio scolastico affrettato e instradato sui soliti binari, ci si limita a ricordare alcune novelle assieme agli elementi basilari della cornice: una dozzina di giovani di bell’aspetto e alto lignaggio, fuggiti da Firenze per evitare l’orrore della peste, decide di trascorrere il suo tempo recitando novelle di svariati argomenti, così da riempire le giornate e allietare i pensieri di tutti. In realtà il capolavoro del maestro fiorentino è qualcosa di decisamente più ambizioso, è una rifondazione ideale della società messa in atto intessendo tra loro le molte narrazioni condivise, un processo di creazione collettiva nato non tanto per sfuggire alla malattia quanto per erigere un nuovo mondo di cortesia e nobiltà da opporre a quello assoggettato alla crisi morale del suo tempo. In quanto narratori, i protagonisti di Boccaccio sono i creatori di un modello alternativo di società che entra in diretta opposizione con le macerie che ne circondano il rifugio. Incarnazioni di un’utopia di palingenesi da esercitare attraverso l’arte, vivono un sogno simile a quello perseguito dalla comune attorno a cui ruota Capri-Revolution, solo che al posto della narrazione Mario Martone pone la danza come cardine di questo processo rigenerativo.
Ispirato dall’esperienza storica della comune fondata a Capri dal pittore tedesco Karl Diefenbach, Martone chiude la propria riscrittura della giovane nazione Italia lavorando sui corpi e sui volti di una gioventù idealistica e romantica nella cui danza si iscrivono le preghiere e le immagini di un nuovo mondo, lontano tanto dalla macchina bellica che sta per cibarsi dell’Europa alle soglie della Prima Guerra Mondiale, tanto dalle utopie ideologiche che corteggiano l’uomo a cavallo dei due secoli, le sirene del Positivismo scientifico da una parte e quelle dell’insurrezione internazionalista dall’altra. Capri-Revolution si svela così un film intimamente legato all’esperienza de Il giovane favoloso, di cui conserva la matrice letteraria rilanciandola lungo un orizzonte universale capace di contenere avanguardie e suggestioni proprie di tanta arte e riflessione artistica del Novecento.
Non a caso le basi etiche ed estetiche della comune provengono per gran parte dal pensiero di Joseph Beuys, artista e teorico dell’arte le cui idee, parole e performance si innestano nel film come schegge provenienti dal futuro. Gli anni Sessanta infatti sono il periodo che vede nascere le idee di Beuys in relazione all’energia spirituale del calore, alla portata rivoluzionaria di ogni uomo e ogni gesto d’arte, al valore capitale che questa e la cultura e la sensibilità possono avere in una nuova economia immaginata a misura d’uomo. Il sincretismo temporale tentato da Martone abbraccia ogni aspetto artistico della comune fondata dal cristologico Seybu, compresa proprio quella danza che vediamo esplodere e rinnovarsi libera attraverso i corpi nudi dei ballerini, ma che dovrà verso la fine del suo percorso trovare una forma, sostituendo la struttura di un palco alla spontaneità della foresta, affinché possa essere comunicata, condivisa, moltiplicata (ma di conseguenza mercificata).
Sbilanciato e irregolare come mai prima, Martone riversa in Capri-Revolution l’ambizione sfrenata di raccogliere enigmi, contraddizioni e speranze del Novecento, tornando a contatto con la tradizione teatrale attraverso il corpo scenico, quei corpi nudi, illuminati, naturali, che assorbono nelle loro movenze la complessità delle grandi utopie del secolo con uno slancio che sfalda il racconto e cattura magnetico lo sguardo.
Per dare forma ad un gesto cinematografico tanto grandioso, Martone e la sua sceneggiatrice Ippolita Di Majo pongono al centro del racconto la bella Lucia (bravissima Marianna Fontana), figlia e sorella di pastori che si ribella al suo destino famigliare spinta da una fame di libertà e scoperta. Lucia infatti finisce preda del fascino di Seybu e della sua comunità di artisti e intellettuali, uomini e donne che si sono ritirati tra gli anfratti più nascosti di Capri per condividere assieme l’utopia di una vita lontana dai dettami della società moderna. Al polo opposto del suo orizzonte di crescita, della sua fuga da un mondo contadino ancorato al rigore della tradizione, Lucia troverà Carlo, un socialista che esercita la professione di medico e professa l’interventismo appassionato, illuso che la grande macelleria bellica possa rivelarsi il palco ideale per l’affermarsi di nuovi equilibri sociali.
Costruito su illusioni politiche o ideologiche, chiese laiche o spirituali, Capri-Revolution è il film di Martone che più si apre alla fede, alla necessità umana di credere in qualcosa, terrena o metafisica che sia. Lucia diventa così la similitudine dell’Italia tutta, una nazione ancora giovane e ingenua che oscilla tra razionalità e spiritualità. In questa scissione però il film tenda a svelare la sua natura schematica, progettuale, di cui pagano il prezzo i personaggi, privi di psicologie e identità proprie. E tuttavia è difficile non farsi coinvolgere dal coraggio messo ancora una volta in campo da Martone, l’unico regista italiano capace oggi di far propria la tradizione didattica di Rossellini per applicarla all’immagine televisiva RAI, delle cui logiche questa trilogia storica evidentemente si nutre ma come un tarlo dall’interno, sovvertendone i meccanismi per arrivare ad una forma altissima di cinema ontologicamente nazionalpopolare, efficace, colto e quanto mai importante.