Dead Silence

Il “nuovo corso” del regista malese è uno spettacolo dal cuore rétro che gioca, divertito, a carte scoperte.

Dead Silence è un film fondamentale per il cinema di James Wan. E’ da qui che inizia a delinearsi con forza quella giocosa rivisitazione, piena di derivata nostalgia e di esibiti artefatti, che gronda un adolescenziale amore cinefilo verso il mondo horror.

Già il logo in apertura della Universal è una più che chiara dichiarazione d’intenti, con un bianco e nero da epoca d’oro, desideroso di indicarci come la mitografia del passato funga da suggestione chiave per ogni riflessione che verrà.

L’immaginario è letteralmente invaso dalla storia del genere, di cui riesce ad abbracciare contemporaneamente i primordi e le ultime tendenze - basti analizzare la figura della malvagia Mary Shaw, mostro bicolore dai movimenti vintage che deforma alla Ringu le sue vittime. Lo stesso espediente del silenzio diegetico, che indica al personaggio/spettatore l’arrivo del malvagio ventriloquo, gioca con il dispositivo secondo un approccio metalinguistico più vicino ai nostri tempi, dove il meccanismo della paura è quanto mai denudato. (pensiamo a Lights Out, prodotto proprio da Wan).

E guarda caso Dead Silence è un film sull’illusione e il suo funzionamento. Non poteva essere altrimenti per un regista così spudoratamente artificioso, che si diverte con il suo luna park di soluzioni, in cui il virtuosismo nei movimenti di macchina, l’accelerazione dei raccordi, i depistanti piani della messa in scena, l’uso del buio e della luce, esibiscono, quasi esasperandolo, il gioco in atto.

La ventriloquia non può che essere per analogia il cinema stesso o meglio l’idea di cinema di James Wan. Già presente nell’esordio Saw con Billy il pupazzo, qui diventa protagonista indiscussa, come arte che media, ma soprattutto manipola. Questa manipolazione appare però sfacciata, essendo ovviamente in scena il suo artefice. Cosa rimane allora al creatore di questa magia se non distogliere lo sguardo dello spettatore e focalizzarlo su ciò che gli sta più a cuore?

Sì, il regista vuole che guardiamo il pupazzo e crediamo fortemente nel suo potere di fascinazione, rimanendo però consapevoli che è tutto un trucco. Ecco quindi il nodo cruciale della poetica di Wan esplicata a chiare lettere dalla rabbia furente del suo alter-ego Mary Shaw, che commette il primo omicidio proprio perché attaccata nel concetto di finzione. Lo spettatore ha così un ruolo attivo nel rimanere sospeso in un limbo: deve entrare dentro l’illusione, restando perennemente vigile nei confronti delle regole di funzionamento del film.

Questo aspetto sarà ancora più radicale nel dittico Insidious, dove chi guarda ha un ruolo preponderante per decodificare un’immagine traboccante di (falsi) indizi.

Ancora lontano dalla maturità raggiunta da , Dead Silence ha tuttavia il pregio, per un occhio attento, di racchiudere il potenziale di James Wan. La soglia tra sogno e realtà, che troverà un articolato sviluppo nei film successivi, qui ha il suo spazio nel teatro abbandonato situato in un’isola che ricalca quella dei morti di Böcklin. Siamo ancora dalle parti di un abbozzo poiché la struttura del film, eccetto il twist finale, è piuttosto lineare e vede un’acerba propensione verso il gioco di prestigio a discapito di ciò che è raccontato. Siamo infatti molto lontani dall’afflato umano che delineerà i personaggi delle opere future, ma, in fin dei conti, Dead Silence, pur nelle sue imperfezioni, mostra un autore pronto a diventare un cecchino del botteghino, capace però di mantenere integra la propria anima. Un mago, per l’appunto.

Autore: Marco Compiani
Pubblicato il 22/09/2016

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