The Descent – Discesa nelle tenebre
Il secondo lungometraggio di Neil Marshall funziona sia come opera di genere sia come testo auto-riflessivo sui meccanismi della visione: senza conflitto fra luce e buio, non può esservi cinema
Dopo gli incoraggianti esordi di una decina abbondante di anni fa, Neil Marshall pare essersi smarrito per strada, complici probabilmente sia il fortunato periodo che l’horror anglofono – indie e non – sta vivendo attualmente, sia l’epoca di quegli esordi, in cui l’orizzonte dell’orrore filmico stava ancora arrancando alla ricerca di nuova linfa ideativa, tematica, stilistica; in breve, di una nuova identità.
La produzione horror anglofona, in primis americana, in crisi dopo la conclusione dell’irripetibile epoca del New Horror e intrappolata nella parentesi prevalentemente anonima – o tutt’al più orientata verso una, più o meno riuscita, costruzione teorica/teorizzante, non di rado indirizzata alla meta-testualità – degli anni ’90 del secolo scorso, si è trovata ad attraversare ancora una fase di passaggio e assestamento all’inizio del nuovo millennio, tanto da lasciare il campo a cinematografie di altre latitudini, nella fattispecie dell’Estremo Oriente (Giappone su tutti), oppure europee (innanzitutto la Francia, poi la Spagna, senza dimenticare l’inserimento del Belgio, rappresentato dai notevoli lavori di Du Welz), che, per un certo periodo, hanno eclissato quasi del tutto dalla mappa gli USA e la Gran Bretagna. Fra le eccezioni di rilievo possono sicuramente essere annoverati almeno Rob Zombie (con standard sempre di livello assai elevato, anche attualmente) negli USA, e appunto Marshall in terra d’Albione, oltre naturalmente a quell’abile operazione di marketing che va sotto il nome di The Blair Witch Project (1999), da cui sono nati figli, figliocci e soprattutto figliastri. Per il resto, salvo qualche sporadico e isolato sussulto o qualche tentativo di rivitalizzare il genere cambiandone il formato (ad esempio con le due serie di Masters of Horror, ideate da Mick Garris e con una pletora di nomi più o meno grossi coinvolti nel progetto), hanno regnato complessivamente piattezza, ripetitività e scarsa voglia di rischiare, all’incirca fino alla seconda metà degli anni ’00, con un’inquietante proliferazione di remake, reboot, spin-off, crossover e altre inutili amenità.
Il presente, come accennato, vede un orizzonte complessivo alquanto mutato, sia sul versante indie sia in parte su quello delle grosse produzioni. Il fatto che i primi lavori di Marshall risaltino in un periodo di sostanziale vuoto per l’horror anglo-americano non significa tuttavia che siano stati sopravvalutati all’epoca, o che debbano venire ridimensionati oggi, giacché, rivedendoli, si ha ancora la netta impressione di trovarsi di fronte ad opere pregevoli e ad un regista abile, visionario e assai dotato, tanto sul versante della scrittura quanto su quello della messa in scena.
Dog Soldiers (2002), lungometraggio d’esordio, e il successivo The Descent (2005) costituiscono un ideale dittico, che vede il sovrapporsi di due strutture narrative pressoché identiche, anche se con esiti a tratti differenti nello sviluppo del racconto, oltre che sul versante stilistico. A questi due titoli andrebbero aggiunti anche Doomsday (2008) e Centurion (2010), che sviluppano dei plot non troppo dissimili da quelli della coppia di opere precedenti, anche se con budget assai più elevati. È prevalentemente coi primi due che, comunque, il tocco di Marshall, la sua padronanza del linguaggio filmico, la sua maestria nella direzione degli attori e nella conseguente creazione dei personaggi emergono in modo cristallino.
Le tracce narrative di DS e di TD potrebbero essere brutalmente riassunte così: sei persone (il numero dei protagonisti è il medesimo in entrambi i film), disperse in un luogo inospitale e ostile, vengono assalite da creature mostruose: la lotta per la sopravvivenza farà emergere lo spirito di gruppo, ma anche conflitti interni talora insanabili, che complicheranno ulteriormente l’evolversi della vicenda. Esposti così, i due plot sembrano l’ennesima variazione dell’usata e abusata situazione-tipo da survival. E, almeno in superficie, il sottogenere di riferimento è proprio quello, in molteplici delle sue possibili configurazioni e con svariati riferimenti agli archetipi filmici più noti e rilevanti, in particolare per quanto riguarda DS. Ciò che in DS viene esibito in modo aperto, specie a livello citazionistico, in TD appare però considerevolmente più sfumato e al servizio della storia: ecco perché TD funziona meglio, presentandosi non solo come il lavoro più coeso e originale di Marshall, ma anche come un vero e proprio gioiello tout court nel contesto dell’horror contemporaneo.
Mentre i sei soldati britannici di DS, dispersi in una misteriosa missione, si troveranno a combattere in un territorio-archetipo del survival, nello specifico le terre selvagge del nord della Gran Bretagna (le highlands scozzesi), avendo come avversari dei licantropi, quindi delle figure tradizionali dell’horror, le sei ragazze protagoniste di TD dovranno invece affrontare un ambiente inedito, non solo per loro ma anche per il cinema dell’orrore in generale, e cioè delle anguste grotte inesplorate, nelle quali in soprammercato si annidano i crawlers, esseri protoumani e cannibali.
In DS, in una vicenda di impianto sostanzialmente tradizionale e derivativo, i pregi albergano nell’abilità di Marshall nello sviluppo del racconto e nel ritmo conferitogli, oltre che nella capacità di costruire personaggi credibili e dai caratteri sfaccettati; in TD si riscontra un vero e proprio salto qualitativo nell’ambientazione, nelle dinamiche su cui si reggono i rapporti fra i personaggi, nel definire un nemico con alcuni tratti originali e inaspettati (anche per lo spettatore), e infine nell’utilizzo dell’illuminazione e delle ampie zone di buio – grandi i meriti in questo senso del direttore della fotografia Sam McCurdy – non solo in funzione della verosimiglianza e dell’economia narrativa, ma anche della produzione di senso (e dei suoi vuoti, fratture, sospensioni), attraverso lo sguardo e gli ostacoli che si frappongono alla linearità della visione. Una sotterranea e sottile meta-testualità che non intacca minimamente la trasparenza della messa in scena.
Sarah (Shauna Macdonald), sopravvissuta a un incidente stradale in cui ha perso marito e figlia, viene invitata da due care amiche, Juno (Natalie Mendoza) e Beth (Alex Reid), a partecipare a una spedizione speleologica nei monti Catskill, situati all’interno dello Stato di New York. Alla spedizione si uniscono altre tre ragazze, Rebecca (Saskia Mulder), Holly (Nora-Jane Noone) e Sam (MyAnna Buring). Tutte e sei sono – ciascuna a modo proprio e sia pure a livelli diversi – spericolate, avventurose, amanti degli sport estremi e perciò in grado di cavarsela anche in situazioni-limite: ingredienti perfetti – e speculari a quelli del “gemello diverso” DS – per speziare la parte action del film.
Due sono le figure con più dettagli psicologici e comportamentali: la tormentata Sarah e l’ardimentosa Juno, la quale probabilmente risulta il personaggio più complesso, e per molti versi oscuro, dell’opera. È di Juno, non a caso, la scelta di portare le amiche a compiere un’escursione ben diversa da quella inizialmente prospettata, per visitare delle grotte sotterranee (teoricamente) inesplorate, ideando un percorso ben più difficile e accidentato rispetto a quello previsto. Il procedere verso le viscere della terra assumerà ben presto i connotati di una graduale discesa agli inferi, metaforica e fattuale, che coinciderà con una proporzionale diminuzione dello spazio fisico e visivo. Le caverne si riveleranno ben presto un letale cul-de-sac, con in più l’incombere di nemici minacciosi e voraci che non hanno paura delle tenebre; non possono averne, perché quelle latebre pietrose sono la loro dimora, il buio è il loro rifugio e della luce non sanno che farsene, giacché sono ciechi. Le protagoniste si troveranno quindi a dover lottare sia contro la natura impervia sia contro una nuova (o primordiale?) razza di nemici umanoidi, il cui territorio è stato invaso da visitatori che diverranno molto presto prede. L’esasperazione legata alle dinamiche estreme della sopravvivenza scatenerà oltretutto divisioni all’interno del gruppo e insospettati rancori, che finiranno col compromettere ulteriormente le già esigue possibilità di salvezza.
La forza di TD risiede quindi nella ridefinizione del concetto di territorialità, che non risulta solo un pretesto narrativo per giustificare eventi e azioni, ma diviene soprattutto l’occasione di sviluppare un meta-testo denso di implicazioni teoriche e tuttavia scevro dei limiti di un’astrazione riflessiva fine a se stessa. TD riesce a essere raffinato senza autoreferenzialità, diretto e brutale senza concedere troppo a facili e triti ammiccamenti cinefili, pur mantenendo viva e sottotraccia una mappatura della visione e delle sue disfunzioni, che, anche tenendo conto dell’epoca della realizzazione, risulta assai efficace e stratificata: dominare un territorio significa innanzitutto porlo sotto il controllo dei propri sensi. Quindi, la lotta fra esseri umani e crawlers si delinea innanzitutto come dialettica tra visibile ed invisibile, in un contesto nel quale l’elemento portante dell’orientamento umano, il vedere, viene continuamente disatteso, inibito, obliterato dalle condizioni ambientali, mentre emerge dalle tenebre una forma di vita che è aliena innanzitutto perché percepisce differentemente. Se i predatori ciechi non necessitano di ausili artificiali per muoversi nel proprio spazio, essendo supportati da un udito finissimo, l’uomo invasore di quel mondo deve invece ricorrere alla tecnica per supplire alle proprie carenze naturali. Vista contro udito: i due sensi peculiari dell’esperienza filmica posti a confronto.
Il lavoro di illuminazione del set (TD è prevalentemente girato in studio), unitamente agli espedienti narrativi che consentono alle protagoniste – e conseguentemente allo spettatore – di scrutare nel buio, diviene allora l’asse portante attorno a cui ruotano sia il testo filmico sia il corrispettivo meta-testo. Ecco allora il proliferare dei cromatismi (rosso per i fuochi di segnalazione, giallo per le torce, verde opalescente per le luci chimiche), che permettono di rivelare esigue porzioni di spazio, e il comparire di una videocamera che ricopre molteplici funzioni: aumenta lo spettro della visione in modalità di ripresa notturna; registra l’incredibile realtà circostante rivelandone alcuni frammenti, inverandola e allontanandola a un tempo; innalza uno schermo ingannevolmente protettivo fra l’occhio e il reale. L’ambizione dell’uomo di estendere il proprio controllo sul mondo attraverso l’ausilio tecnologico – antico pallino del cinema – conduce ad abbagli prospettici che non penetrano né scalfiscono le maglie dell’oscurità, bensì ne moltiplicano le zone d’ombra, i contorni sfuggenti.
Le sei donne smarriscono la strada, e con essa ogni barlume di raziocinio (finendo anche per colpirsi – inconsapevolmente? – a vicenda), non solo a causa della labirintica disposizione dello spazio che le circonda, oltre che dei sinistri avversari, ma anche e soprattutto per l’idea su cui si fonda la loro impresa: esplorare un mondo nuovo (che tale non è, vista la presenza di tracce di precedenti visitatori alloctoni, probabilmente divorati dai crawlers) e mapparne la struttura. Il fatto è che non si può mappare il buio, né circoscriverlo, né tantomeno svelarne i segreti, specie se si proviene dal mondo emerso, una superficie sotto la quale si celano altre dimensioni a cui l’uomo non appartiene.
Marshall costruisce abilmente un universo parallelo di dolore, paura e annichilimento psicofisico, non lesinando sul gore, sul ritmo e sulla suspense, quindi centrando pienamente gli obiettivi di una pellicola di genere, e purtuttavia realizzando anche un’opera complessa e affascinante, nella quale l’investigazione del mondo ctonio diviene riflessione sul linguaggio filmico e sui due principi che lo fondano: la luce e la sua assenza.