The Evil Within

I demoni personali di un figlio della 'nuova generazione perduta' descritta da Ellis in Less than Zero

"Tu hai vinto ed io cedo"

William Wilson - E.A.Poe

Ne è piena la narrativa, e ne è pieno il cinema, di film, libri o semplicemente storie che cercano di definire la duplice e specchiante diatriba tra l’essere e il riconoscersi. Psicologie scisse precisamente a metà, linee di confine a divisione del bene dal male, del giusto dall’ingiusto, che tracciano una netta separazione tra la pesantezza di una carezza e la dolcezza di un omicidio. Dal visconte calviniano, alla bestiale creatura di Stevenson, fino ad arrivare ad Enemy di Villeneuve, la cultura è piena di riferimenti al doppelgänger. Può apparire come se la società, da fine ottocento fino ai giorni nostri, avesse partorito una sua controparte ad essa riconoscibile, identificabile, gemellare ma, allo stesso tempo, altera. Un capro espiatorio per alcuni, una rappresentazione astrale della propria alienazione per altri, quella parte oscura che ci assomiglia ma che non riconosciamo, un atomo drammatico pronto all’uso e al consumo dell’autore che può arrivare ad utilizzarlo, più semplicemente, come un’unità narrativa utile a forgiare un’allegoria: esistenzialista e/o psicanalista della società (e personalità) novecentesta.

Se fosse la società ad esigere una scissione dell’individuo, The Evil Within, potrebbe rappresentare il testamento oscuro di una parte della "generazione perduta" descritta da Ellis in Less Then Zero. Losangelina, viziata, apatica, ricca, annoiata e violenta. Il regista, Andrew Getty, fu nipote di J. Paul Getty (Getty Oil Company), nascendo quindi da una famiglia ricca, ed avendo scelto come metro espressivo non tanto lo stile legato alla realtà (come l’Ellis di Less than Zero e seguiti e non l’Ellis di American Psycho) ma il genere horror, non poteva che generare un film inquietante ed informe, e coinciso con la sua stessa morte. Senza aver ultimato il montato e senza aver finito la color correction il film si è intrecciato intorno al corpo di Getty come una pellicola infestante, un film-serpente che ha portato il regista ad un lavoro post produttivo maniacale e quasi infinito. Un lavoro ossessivo sul marchingegno della fantasia, su quell’effetto speciale più artigianale che digitale, in grado di elevare - infine - il film ad autentico terrore. Un lavorio di faustiano dettaglio che infine gli è sopravvissuto. Interpretato da un bravissimo Frederick Koehler nelle parti di un ragazzo disabile che pian piano lascia al suo doppelgänger mostruoso ed assassino - letteralmente - la sua stessa pelle, personaggio instabile, dapprima leso e scisso poi terrificante e spietato, uno psicotico a cui l’arbitrarietà della scelta è stata reclusa da una parte della società divistica che fa dell’apparenza l’unico metro di giudizio. Il sonno di Hollywood genera mostri...e racconti horror. E questo è sicuramente uno dei più imprecisi e sporchi, ma riusciti, suoi tentativi. Film imperfetto, prolisso, in certe occasioni cinematograficamente sgrammaticato, e proprio per questo, almeno in parte, azzeccato. Pervasivo e velato come un sogno che sai di non dovere iniziare, contenuto un incipit di un delirio soffocante, dove i demoni personali non hanno pietà, neanche per la mente di chi li ha generati. Andrew Getty ci porta nel suo lunapark, ci trascina nel suo tunnel degli orrori, ci abbandona in una galleri di specchi, lasciandoci lì, in balia dei suoi incubi, smarriti nel suo giro di giostra che non avrà mai fine. Un film che è già un cult. Sghembo ed ipnotico, delirante e surreale, The Evil Within è il film che non ti saresti mai aspettato di vedere. Un’iniziazione - come ci viene presentata dalla prima sequenza onirica del film - allo spavento che il mondo stesso può generare, tendendoci la mano, ci trascina in quella casa infestata (World’s Scariest), nei suoi oscuri intestini, precipitando finché non si esce dall’altra parte.Ne usciamo non più soli, ancora mano nella mano alla propria madre, delusi dallo spavento non sopraggiunto gliene chiediamo i motivi per sentirsi da lei dire: "Pensi che la corsa sia finita? Come pensi che andrà a finire?"; aprendo così le porte a qualcosa, o qualcuno, che non dovrebbe mai uscire da quella giostra. Alla stregua di questo piccolo capolavoro orrorifico: saper riconoscere nel film di Getty una visione che non avreste mai dovuto o voluto scegliere di vedere.

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 10/12/2017

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