Excision

Ennesimo ritratto femminile tardo adolescenziale nel panorama horror indie americano recente: pur con i consueti ingredienti, la ricetta funziona

È almeno dai tempi di Freaks che al cinema la deformità/difformità, percepita a livello sociale come inadeguatezza rispetto ai canoni consolidati della normalità, diviene crogiolo di violenza e desiderio di rivalsa da parte dell’Untermensch di turno. Freaks però rappresenta un unicum, non solo nel periodo in cui viene girato e portato in sala, bensì in generale nella storia della settima arte, tanto da diventare una pellicola “maledetta”, vittima di corpose manomissioni censorie, boicottaggi in vari paesi per molti anni, oltre a costare, di fatto, la fine della carriera per il suo geniale ideatore, Tod Browning.

L’horror classico (di cui comunque Browning fu un cantore col suo altrettanto celebre Dracula del 1931), sia americano sia britannico, non riuscì più per lungo tempo a eguagliare la carica visionaria, la libertà realizzativa, il dirompente anarchismo iconico, tematico e narrativo di Freaks e, salvo rarissime eccezioni, si dovette attendere la metà degli anni ’60 per tornare a vedere sugli schermi qualcosa che richiamasse la potenza visiva rivoluzionaria – e probabilmente troppo in anticipo sui tempi per essere apprezzata adeguatamente – dell’opera più estrema e incisiva di Browning. Con la new wave horror americana, inaugurata nel ‘68 dal seminale La notte dei morti viventi di Romero, il cinema dell’orrore statunitense torna ad occuparsi prepotentemente di freaks, non più pervasi dall’elegante aura prevalentemente gotico-letteraria dei grandi mostri classici, bensì sovente portatori del marchio d’infamia dei paria sociali (gli zombi romeriani, le famiglie/comunità disfunzionali dei primi film di Craven e Hooper, molti degli eroi carpenteriani, oltre alle figure trasversali, fra vecchio e nuovo, di killer seriali e pressoché immortali come Freddy Krueger, Jason Voorhees o Michael Myers), esseri respinti dalla collettività non solo in quanto pericolosi, ma anche e soprattutto perché dif-formi rispetto ai modelli estetici e comportamentali della comunità di riferimento, esattamente come le tenere, ma giustamente vendicative, creature del capolavoro di Browning.

Se l’epoca d’oro del New Horror si conclude emblematicamente sul finire degli anni ’80 col fondamentale Society di Yuzna, vero e proprio spartiacque fra un prima e un dopo del cinema dell’orrore americano, un film che oltretutto funge da – inconsapevole ? – preludio per gli innocui teen dramas degli anni ’90 come Beverly Hills 90210 -anche se con tutt’altro spirito rispetto a questi - l’horror indie americano contemporaneo sembra riprendere proprio lì dove la new wave era prossima a declinare, e dove le serie televisive cominciavano a trovare le loro nuove fortune: il mondo dell’adolescenza (alto)borghese. Infatti, nella odierna, vivace ed estremamente prolifica – pure troppo a volte – ondata horror americana (meglio sarebbe dire anglofona, visti gli esiti fortunati di produzioni indipendenti canadesi, australiane, britanniche), l’età inquieta è protagonista assoluta, anche e soprattutto in quanto periodo di passaggio e trasformazione psicofisica, perciò inevitabile terreno di coltura per fobie, ossessioni, sogni e soprattutto incubi, che molto possono esprimere nell’immaginario potenzialmente sconfinato, libero e anarchico dell’orrore cinematografico.

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Excision, esordio nel lungometraggio del regista statunitense Richard Bates Jr (che adatta e rielabora un suo corto precedente di grande successo), si colloca con chirurgica precisione esattamente nel solco precedentemente descritto dell’adolescenza inquieta, foriera di ansie, fobie, idiosincrasie e conflittualità, le quali, se spinte all’estremo, conducono inevitabilmente ad esiti che navigano a vista tra la follia, la farsa e la tragedia.

Naturalmente, l’incognita, in opere come questa, che percorrono sentieri tematici ormai fin troppo battuti e chiari nel tracciato, è quella di scivolare nel cliché, nello stereotipo, nel déjà-vu, di riproporre schemi narrativi ormai consunti; è in contesti rischiosi come questo che l’abilità della regia deve giocoforza emergere nel miscelare gli ingredienti, senza che la pietanza risulti sciapa o piuttosto esageratamente speziata. Bates Jr, pur peccando a tratti di (perdonabili) ingenuità tipiche dell’opera prima, riesce a strutturare armonicamente e con efficacia un orizzonte narrativo adeguatamente malato e disturbante, riuscendo anche con acume a innervare il suo lavoro di nera ironia e gustose trovate al limite del trash (vedere per credere la sequenza del cunnilingus subìto dalla protagonista del film, nella fase di ciclo mestruale), e poi giovandosi di un cast ampiamente all’altezza di un film indipendente, oltre che intelligentemente selezionato e amalgamato, nel quale spicca la prova di AnnaLynne McCord nella parte principale della tardo adolescente Pauline.

Il racconto filmico è focalizzato sulle vicende di una famiglia della media borghesia californiana, composta da quattro membri: la madre Phyllis (Traci Lords), il padre Bob (Roger Bart), la figlia più anziana Pauline e quella più giovane Grace (Ariel Winter), affetta da fibrosi polmonare. La diversità caratteriale e psicologica con cui vengono tratteggiati tali personaggi – in modo tutto sommato convenzionale, ma non per questo meno efficace – funge da detonatore delle conflittualità più o meno latenti che muovono la narrazione, oltre che, soprattutto, della psicosi che affligge la protagonista. Se la madre virago e legata alle convenzioni sociali è contraltare del padre dimesso e mediocre, la figlia minore, modello di comportamento e tuttavia vezzeggiata anche in quanto gravemente malata, è opposto della propria sorella maggiore, che risulta costantemente fuori asse rispetto alle aspettative genitoriali, istituzionali e ambientali. A partire da tale schema base, si intrecciano poi i rapporti trasversali fra i vari personaggi della famiglia, con il fuoco della narrazione proteso prevalentemente ad evidenziare quelli fra la madre e la figlia maggiore. Traci Lords e AnnaLynne McCord duettano con ironia, gareggiano in bravura e mostrano quanta conflittualità possa svilupparsi a partire dall’incomunicabilità generazionale, specie se condita di convinzioni opposte riguardo al rapporto con la comunità di appartenenza e con le sue regole. Il proscenio è comunque quasi sempre di Pauline, alle prese con problemi appropriati alla sua età, anche se vissuti tramite reazioni e comportamenti che evidenziano l’inadeguatezza della ragazza rispetto alle aspettative formali della collettività.

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Il difficile rapporto col proprio corpo, vero principio fondativo dell’horror moderno e contemporaneo, specie di quello adolescenziale, non risulta, per molti versi, più di tanto problematico per Pauline, che sublima le proprie ossessioni in un onirismo estremo e sanguinolento, ma anche in iniziative fattuali che solo in superficie risultano incompatibili con la propria marginalità sociopsicologica (come quando ad esempio convince, con estrema facilità e senza alcuna cautela formale, un coetaneo belloccio a farle perdere la verginità), dimostrando invece un’inaspettata capacità di coercizione e persuasione per una outsider esclusa e ostracizzata nella dimensione pubblica come in quella privata.

L’elemento risolutore per comprendere l’aberrante equilibrio di Pauline si situa però nella sua aspirazione ad intraprendere la carriera medica dopo il liceo, indirizzandosi quindi verso quella disciplina che ambisce a conoscere ogni particolare esterno e soprattutto interno del corpo umano, per riuscire a chiarirne le reazioni e a guarirne le patologie: una visione illusoriamente e semplicisticamente meccanicista dell’individualità umana, che fa il paio col disturbo ossessivo-compulsivo da cui è affetta la giovane, un disturbo psichico, quindi interiore, che si pasce dell’illusione di padroneggiare le molte e incombenti variabili del mondo circostante, quindi di ciò che è esterno, attraverso il controllo spasmodico e meccanico delle proprie azioni e, ancora una volta, del proprio corpo, perciò di quel micro-cosmo individuale che costituisce l’unico confine, appunto, fra l’interno e l’esterno del soggetto umano. Inoltre, sempre attraverso la conoscenza del corpo, Pauline cercherà di porre rimedio alla malattia della sorella (solo in apparenza sua rivale, secondo un cliché ricorrente nel cinema di ambiente familiare, ma in realtà da lei profondamente amata) e perciò di riconquistare la fiducia perduta della propria famiglia e il suo ruolo nel nido domestico. Questa umanissima aspirazione di Pauline, in quanto parto di una psiche instabile, condurrà al delirante finale, in cui l’aspirante chirurga tenterà un improbabile trapianto di polmone sulla sorella, attraverso l’apporto di una donatrice tutt’altro che volontaria; un finale che brilla per l’equilibrio fra umore nerissimo, gore e malinconica tenerezza, scandita dall’abbraccio della madre piangente e urlante a Pauline, la figlia ormai perduta, eppure ritrovata, sia pure in un breve istante solo illusoriamente catartico.

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Se l’ossessione di Pauline per la corporeità è il tratto più caratteristico della ragazza, la sua fisicità lo è del film, che vive dell’ottima performance della (splendida, al naturale) McCord, senz’altro aiutata da un trucco non invasivo e, proprio per questo, assai efficace (è impossibile abbellire il brutto, ma ad imbruttire ciò che è bello ci vogliono pochi e sapienti tocchi: il risultato sarà doppiamente inquietante rispetto al mostruoso tout court), ma anche dalla propria capacità recitativa nel rendere un personaggio che vive di gesti impacciati, di passi pesanti e mascolini, di un look trascurato e incolore, in breve, della goffaggine di un corpo che sembra perennemente in disarmonia rispetto all’ambiente circostante.

Il personaggio di Pauline, però, non è solo fisicità, è anche parola, capacità di confrontarsi con gli altri attraverso la risposta salace, la sbrigativa brutalità nel presentarsi o proporsi, la beffarda capacità di condurre i propri avversari di turno a danneggiarsi da sé. Oltre a ciò, Pauline presenta una mai doma autostima, che la porta pervicacemente a difendere premesse ed esiti della propria visione del mondo, con sarcastica convinzione, anche quando l’interlocutore è… Dio.

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Se la prova della McCord è rimarchevole, non vanno dimenticati i meriti di un cast pregevole e ottimamente utilizzato, anche se prevalentemente per parti di contorno, che però non sono mai gratuite, anzi sono spesso in grado di elevare la qualità complessiva del lavoro, fornendo all’attrice protagonista dei partner di alto livello con cui confrontarsi. Troviamo infatti un dimesso John Waters nei panni del prete che ha l’incarico di curare l’anima e la psiche di Pauline, insieme a un altrettanto rassegnato Malcolm McDowell in quelli di uno dei docenti della ragazza; Ray Wise interpreta invece il sornione preside della scuola e, da ultima, Marlee Matlin è una dirigente scolastica, ovviamente e autoironicamente sordomuta. Per non parlare della già citata – e bravissima – Traci Lords, nelle vesti materne. L’intuizione di Bates Jr, al di là della possibilità di giovarsi di un valido comparto attoriale, si colloca nell’aver disegnato dei ruoli tagliati su misura per ciascuno dei – più o meno ingombranti – nomi coinvolti, pressoché tutti di segno beffardamente diverso od opposto rispetto a quelli che li avevano portati alla fama davanti alla mdp o, nel caso di Waters, prevalentemente come regista folle e controcorrente.

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La regia di Bates Jr struttura la narrazione secondo uno schema funzionale a far emergere i ritorni e le ripetizioni della quotidianità di Pauline, utilizzando quattro ambientazioni/situazioni ricorrenti: il mondo onirico della ragazza, nel quale si mescolano erotismo e violenza; la dimensione familiare, con i mille piccoli e grandi attriti quotidiani; quella scolastica, con l’outsider Pauline perennemente in conflitto coi coetanei e coi docenti; e infine i surreali dialoghi della protagonista, in chiesa, con un Dio silente, che ella non esita a interpellare e ad apostrofare come se si trattasse dell’ennesima figura autoritaria e ottusa fra quelle che punteggiano la propria esistenza. Tale struttura circolare conferisce al film un ritmo assorto, a tratti lento, che ad alcuni ha fatto storcere il naso, ma che rende con efficacia la rigidità rituale con cui è scandita l’esistenza piatta e ripetitiva di un’area provinciale qualsiasi del Grande Paese, di cui Pauline, pur nella sua inevitabile solitudine e nella sua lucida follia, rappresenta forse l’unico elemento autenticamente vitale ed emotivamente attivo, anche se al di sotto dei pesanti strati del rimosso e della deriva psichica; una deriva di cui, forse, proprio tale vacuo contesto ambientale è la causa originaria.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 08/07/2016

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