Fargo

Il sorprendente adattamento targato FX del capolavoro firmato dai fratelli Coen

“I used to have positive opinions about the world, you know, about people. Used to think the best. Now I’m looking over my shoulder. An unquiet mind. That’s what the wife calls it. The job has got me staring into the fireplace. Drinking. I never wanted to be the type to think big thoughts about the nature of things and… All I ever wanted was a stack of pancakes and a v8.”

Quando circa un paio di anni fa è iniziata a circolare la notizia di una versione seriale del capolavoro dei fratelli Coen, tutti, dai fan più accaniti degli autori ai semplici appassionati di cinema e televisione, non hanno potuto non pensare al progetto in arrivo, riempiendo il tempo rimanente con discorsi ipotetici, aspettative riposte e tantissimi desideri. Che cos’è Fargo? Quanto c’entrano gli autori del film in questo lavoro? Queste sicuramente le domande principali nonché preliminari alla visione e alla comprensione della miniserie. Innanzitutto diciamo subito che i fratelli Coen c’entrano eccome, in quanto sono detentori dei diritti della storia ed executive producers della serie. Tuttavia non sono tra gli autori principali, ruolo che spetta a Noah Hawley showrunner del progetto che dimostra grandissima maturità nell’orchestrare un racconto ambizioso, di grande complessità e capace sia di dialogare col film da cui deriva, sia di prendere una propria strada indipendente. A conti fatti Fargo è stata una garanzia già da prima della sua messa in onda, viste le personalità coinvolte (in particolare gli attori) e l’emittente responsabile: la FX infatti è senza alcun dubbio il canale più virtuoso degli ultimi anni, che con prodotti come Sons of Anarchy, Justified, Louie, The Americans e Fargo ha alzato notevolmente l’asticella della qualità nella televisione americana.

La serializzazione di un’opera di questo tipo impone un discreto numero di cambiamenti e la necessità di puntare l’attenzione e l’impegno creativo su sporgenze testuali che nel lavoro cinematografico erano messe in secondo piano, o meglio curate secondo principi che si adeguano a un prodotto di circa novanta minuti. Il primo e più evidente fronte è quello dei personaggi i quali devono, per forza di cose, subire un’intensificazione della complessità. Grazie alle capacità straordinarie di Billy Bob Thornton e Martin Freeman, gli autori riescono a costruire due personaggi principali maestosi, in continuo dialogo e responsabili di reciproche mutazioni. Se Thornton – attore feticcio dei Coen – rimane sul fondo come rappresentazione biotica di un Male universale, in maniera molto simile al Bardem di Non è un paese per vecchi, è Freeman che interpreta il ruolo più sorprendente, riuscendo a rendere alla perfezione la schizofrenia, il cinismo dell’essere umano del mondo di Fargo. La sua trasformazione, che da uomo medio e mediocre lo porta a diventare un self made man di successo, oltre che uno spregevole truffatore, è la punta di diamante di una sorta di passaggio all’età adulta al contrario, dove la maturazione ha la forma dell’abbrutimento progressivo, in barba ad ogni forma di etica e rispetto per il prossimo.

Il dialogo col film dei Coen è fittissimo, così come con l’intera loro cinematografia. I personaggi non sono altro che emanazione di altri caratteri visti e rivisti nell’intera opera dei due autori, senza però mai dare l’impressione della ridondanza, del già visto, ma lavorando sull’accumulo, sulla sottolineatura di una poetica sempre più netta e precisa. Si potrebbe quasi affermare che la dimensione della miniserie sembra fatta apposta per esaltare tutte le qualità di un cinema fatto di bozzetti grotteschi, di particelle secondarie cariche di vita, di spaccati bizzarri eppure incredibilmente realistici, tutti elementi perfettamente a proprio agio in una testualità estesa come quella seriale. È la provincia americana a fare da padrona, con quell’umanità carica di luoghi comuni, piena di drop out allo sbaraglio e governata da logiche primitive, spesso legate alla sopravvivenza, altra volte al mantenimento di un ordine mentale completamente fasullo, fittizio. In questo mondo, di diretta derivazione dal film, non ci sono buoni e cattivi, ma solo personaggi più ingenui e altri più furbi, personaggi consapevoli della viralità del Male e consci di poterlo usare a proprio piacimento, a scapito di altri. Spaccati come quello tra il padre di Molly e la sua nipote acquisita che insieme imbracciano il fucile sul porch di casa in attesa di un nemico che non arriverà mai, restituiscono tutta l’autenticità di un’altra America, lontana dagli artisti dei locali del Greenwich Village, così come dai geni della Silicon Valley o dai fervidi musicisti di New Orleans; un’America di provincia, fredda come il cinismo di alcuni individui che la popolano e spenta come il cervello di tanti altri.

Come nel migliore degli uno contro uno, il finale è una splendida caccia all’uomo, preparata alla perfezione da una serie di episodi capaci di sfoggiare sia una maturità narrativa fuori dal comune (intrecci temporali, giochi di coppie, rebus da risolvere), sia una consapevolezza estetica capace di offrire soluzioni linguistiche decisamente ardite, come le lunghe carrellate spezzate da invisibili dissolvenze che terminano in bruschi salti temporali, tanto spiazzanti per lo spettatore quanto per i personaggi. Dopo inseguimenti di ogni sorta e tentativi di ripartire da zero passando per Las Vegas, si torna sempre e comunque a Fargo; Lorne insegue Lester, Lester tenta di fragare Lorne (bellissima l’idea della trappola per orsi sotto la matassa di vestiti), sempre in quella cittadina che fa da microcosmo contenente tutte le contraddizioni di un paese intero. Ovviamente finirà nel sangue.

Per concludere torniamo dove abbiamo iniziato: che cos’è ora, a conti fatti, Fargo? Sicuramente una riscrittura, il tentativo di lavorare su un testo, ma non per farne il remake, bensì prenderne la matrice, il senso profondo e riscriverlo, adattarlo a una nuova testualità. Non solo. La serie si pone inizialmente come remake nascosto vista le numerose analogie tra le due narrazioni, ma soprattutto, da un certo momento in poi diventa un vero e proprio sequel, trasformando in icona il rastrello arancione, già oggetto feticcio del film, e che nella serie diventa la chiave che apre il varco tra i due lavori e resuscita letteralmente l’opera dei Coen mettendola in comunicazione con la serie. A conti fatti ormai Fargo non è più né un film né una serie, bensì un’idea di mondo, un universo pronto a contenere tante altre storie, un ecosistema narrativo quasi autosufficiente, pronto a generare altri lavori, che siano essi audiovisivi o narrativi. Potrebbe tranquillamente nascere una raccolta di racconti, un romanzo, nuovi film, oppure una nuova stagione (che noi auspichiamo) targata FX trasformando la miniserie in una serie antologica sul modello di True Detective e American Horror Story.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 09/08/2014

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