Dafne
Il film con Carolina Raspanti, attrice con sindrome di Down, aggira i luoghi comuni in un viaggio sentimentale tra padre e figlia.
Si chiama Dafne come la ninfa della mitologia greca che rappresenta i corsi d’acqua dolce, colei che fa innamorare il dio Apollo. E la sua figura - tutto sommato - non è lontana dalla funzione dell’acqua: rigenerante, appagamento di un bisogno e saturazione di un vuoto, bevendola si può riprendere forza per camminare. Carolina Raspanti è la giovane attrice affetta da sindrome di Down protagonista di Dafne, titolo e nome, il film di Federico Bondi che ha vinto il premio Fipresci alla Berlinale 2019 dopo la presentazione nella sezione Panorama. È una storia apparentemente semplice: Dafne vive con la sua famiglia in Toscana, con i genitori Luigi e Maria, ma la madre improvvisamente scompare. Davanti al lutto la famiglia vacilla, è chiamata a sostenere la sofferenza e insieme affrontare una riorganizzazione complessiva della vita.
Ma in realtà non c’è niente di “semplice”, già in questo incipit. La morte, lasciata pudicamente fuori campo, introduce subito a un non detto che scorre per tutto il racconto: Luigi (Antonio Piovanelli) non è certo giovane, bensì anziano e provato, e subisce l’ulteriore colpo della vedovanza. In futuro non ci sarà più neanche lui e la ragazza Down resterà sola. Qui il film inizia a smentire il primo luogo comune: Dafne è autonoma e ha un carattere forte, non solo se la cava ma ha fidanzati e un lavoro (all’Ipercoop, come l’attrice nella vita), seppure portatrice della patologia respinge ogni sospetto di non autosufficienza. Al contrario. Ed ecco un secondo ribaltamento, che si gioca sul piano più strettamente narrativo: dinanzi a due personaggi stravolti dal lutto, il compito di sollevare la situazione spetta a quello in teorica condizione di minorità. Dafne, infatti, capisce che dovrà intervenire per uscire dall’angolo di impotenza in cui sono costretti. Non lo dice mai, evitando scene madri, ma la realizzazione è chiara: in questa svolta narrativa sta la maggiore attestazione di normalità nei suoi confronti, perché diventa non più una ragazza con sindrome di Down ma una figlia che aiuta il padre, come tutte. Dafne e Luigi iniziano un viaggio, un road movie a funzione catartica che lasciamo alla visione: sembra un’avventura pastorale, per tornare al mito, e un percorso sullo sfondo arcadico della campagna toscana. Obiettivo perdersi per ritrovarsi.
C’era una serie di rischi evidenti nel girare Dafne, quelli che sempre si applicano al cinema con e sulla disabilità: da una parte la possibile strumentalizzazione del tema, dall’altra il rischio pietismo e quindi di retorica. Il regista li aggira con alcune trovate limpide ma efficaci: tra tutte il carattere di Dafne, esplicita e vulcanica, dunque simpatica, e non certo per un’empatia estorta dalla sua condizione ma per un semplice dato di fatto. Lei è così. Dice sempre quello che pensa e sabota una regola implicita della formalità narrativa: quando il padre è triste lei lo specifica, quando fa qualcosa che non le piace lo sottolinea, va quasi a tematizzare i suoi difetti - e implicitamente gli ostacoli da superare per creare una nuova famiglia a due. La sua onestà è disarmante. È anche una questione di sguardo: Federico Bondi vuole metterci nei panni dell’altro e portarci a vedere con i suoi occhi. E cosa c’è di più lontano di una Dafne dalla supposta “normalità”? D’altronde il regista ha lo slittamento di prospettiva nelle vene, basti pensare a Mar Nero del 2008: storia di Angela, badante rumena che arriva in Italia e deve occuparsi di Gemma, un’anziana che non può camminare. Ecco ancora l’alterità e la disabilità che si intrecciano, in quel caso c’era una migrante, ed ecco un’altra parabola che parte dal diverso e arriva al normale, traiettoria prediletta dell’autore.
Bondi accompagna il racconto con una regia piana, che cammina su una linea sottile evitando le trappole: una storia che coincide con la sua protagonista, Dafne/Carolina quasi sempre in campo, in una sovrimpressione tra racconto e personaggio che può essere un limite ma in fondo si rivela funzionale al compiersi del percorso. Tra l’altro, malgrado le poche linee di sceneggiatura ricevute, Raspanti non si limita a riversare se stessa sullo schermo bensì interpreta una parte, come spiegato nell’incontro col pubblico a Berlino: la sua è una vera prova d’attore, convincente, che dimostra come le persone affette dalla sindrome possano recitare. Dafne è quindi un prezioso “disturbo” alle convenzioni del cinema italiano, un piccolo e coraggioso film che si chiude in un potente finale sentimentale.