Un’altra vita - Mug
Un trapianto di volto fa esplodere le contraddizioni della Polonia cattolica, nella commedia Orso d’argento a Berlino 2018.
Cambiare volto è una grande ossessione del cinema. Si tratta di un sogno-incubo, forse, iscritto nello statuto stesso dell’immagine, nelle sue dissolvenze e sovrimpressioni, nella possibilità di far svanire una figura e mostrarne subito un’altra diversa, da sovrapporre, cambiare di continuo. Un’ossessione che dopo un secolo e un quarto non si consuma ma rinnova, slittando dai classici ai contemporanei, da Occhi senza volto di Georges Franju a La pelle che abito di Pedro Almodovar, dal colosso di genere al kitsch sublime, da Face/Off di John Woo a Il volto di un’altra di Pappi Corsicato. E si intitola “volto” anche il film di Malgorzata Szumowska, o meglio “faccia”, in polacco Twarz, nel titolo internazionale Mug e in quello italiano Un’altra vita. A cambiare faccia è qui Jacek (Mateusz Kosciukiewicz), operaio impegnato nella costruzione di un’enorme statua del Cristo in una piccola città della Polonia (“Sarà più grande di quello di Rio”). Jacek è giovane, bello, fan dei Metallica e fidanzato con la sua equivalente Dagmara (Malgorzata Gorol). Per realizzare l’atto di gigantismo della comunità cattolica subisce un incidente sul lavoro: rimasto sfigurato, la chirurgia plastica gli consegna un nuovo volto, deforme e mostruoso, non può parlare ma diventa famoso e inseguito dalla stampa.
È una commedia, il settimo lungometraggio della regista polacca che ha vinto l’Orso d’argento alla Berlinale 2018, ovvero il gran premio della giuria guidata da Tom Tykwer. Ispirata a due eventi reali che l’autrice mescola tra loro (la costruzione della statua di Cristo a Swiebodzin e il primo trapianto di faccia in Polonia), la storia mette in parodia il proprio Paese, attraverso un microcosmo che si apre all’universale e rappresenta un’intera comunità. Regolata da laceranti contraddizioni: molto credente eppure votata al culto dell’immagine, ambiziosa nelle intenzioni ma mediocre nella sostanza, come la parabola di Jacek dimostra. Quando vede il nuovo volto la ragazza lo lascia. La comunità non lo riconosce più e lo rende escluso. Oltre alle parole perfino i suoi cari non sanno accoglierlo pienamente, sono respinti dalla deformità e difficoltà di parola, mentre lui tenta di gestire - con la sorella - l’improvvisa notorietà e volgerla a suo vantaggio.
Szumowska stigmatizza la Polonia cattolica spingendo sul pedale del grottesco: sono ridicole le figure dei preti, pedine tragicomiche che possono compiere un esorcismo come eseguire un’ambigua confessione. Patetica allo stesso modo è la società che concede loro credito acritico, che non mette in discussione. La seconda faccia di Jacek fa allora da grimaldello e forza le ipocrisie, le quali c’erano anche prima ma non venivano notate perché, semplicemente, se ne faceva parte: già all’inizio era assurdo edificare l’immensa statua in mezzo al nulla, la collettività già si reggeva su un equilibrio di facciata. Dopo l’incidente diventa solo più evidente: Jacek è lo stesso metallaro di paese bullo e sboccato, è cambiato il volto ma non la sostanza. La violazione della forma, però, è insopportabile per il mondo intorno: basta un momento e lo sguardo degli altri si è radicalmente modificato, così la loro condotta e la ricaduta su Jacek. Essere deformi è inaccettabile per la devota comunità, che crea dunque il suo “uomo elefante” bevitore e appassionato di heavy metal. È proprio nel discorso sull’immagine che Twarz esce dal particolare: lascia la piccola realtà e ci riguarda direttamente, perché investe il nostro modo di vedere e la disponibilità o meno ad accettare una deviazione dalla norma, un deragliamento dal binario della presunta normalità.
Tutte riflessioni che non sottraggono Un’altra vita dalla sua essenza costante: un racconto sullo stato della Polonia che sempre a essa si riferisce, all’ipocrisia cattolica che costruisce cattedrali nel deserto ma non accorda solidarietà a una vittima. La sua ironia denuncia un limite, un pensiero corto. C’era un film simile alla Berlinale 2019: God Exists, Her Name is Petrunya di Teona Strugar Mitevska, che sposta la questione in Macedonia e la scrive al femminile, ma conferma la medesima sostanza, l’arretratezza di un contesto religioso lì anche maschilista. Szumowska tira i fili della commedia tra assurdità e parolacce, tra hard rock e Gigi D’Agostino (esilarante la base de L’amour toujours che enfatizza l’idillio tra fidanzati), crea facili simboli e metafore, inscena un assedio al supermercato da comicità alla Jerry Lewis (Dove vai sono guai!, 1963), è animata da un furore buñueliano ammazza-preti: raccoglie meno di quello che semina, alla fine, perché il suo cinema è fuori tempo massimo, il dispositivo che propone con entusiasmo è già datato. La satira di costume e l’assurdo politico fanno suonare nella mente parecchie campanelle. Una volta afferrato il messaggio diventa tutto chiaro, evidente. Però il film fa ridere, a tratti molto, e va bene anche così.