Fender Bender

Mark Pavia ritorna dietro la mdp, dopo vent’anni di silenzio, con un horror asciutto e “classico” che è una sorta di conciso breviario dello slasher.

A volte ritornano.

Dopo una ventina d’anni di assenza dai radar di pubblico e critica, Mark Pavia si riposiziona dietro la mdp per fornire il proprio contributo alla causa dell’horror contemporaneo – comunque saturo di titoli, luoghi comuni e idee più o meno sfruttate – e lo fa con Fender Bender, uno slasher semplice e diretto, un lavoro, se si vuole, corretto o poco più, ma forse, proprio per questo, piacevolmente “classico” e oltretutto capace di ammantarsi, probabilmente in modo inconsapevole, di una dimensione teorica che ne trascende esito e intenzioni.

Quando Pavia realizza The Night Flier nel 1997, il cinema americano del brivido sta patendo l’avvenuta conclusione del periodo aureo del New Horror, trovandosi sospeso fra la mancanza di nuove, vigorose idee e la propensione a un ripensamento complessivo delle proprie coordinate linguistiche, tematiche ed espressive: una propensione decisamente marcata dall’irruzione della dimensione meta-testuale come nuova cifra compositiva. Nightmare – nuovo incubo (1994) e la saga di Scream (1996-2011) di Craven, assieme a Il seme della follia (1994) di Carpenter, costituiscono probabilmente gli esempi più vistosi e riusciti di tale fenomeno.

A partire dal 1999, con The Blair Witch Project, la meta-testualità comincia a delinearsi come componente organica del corpo filmico, originando un’estetica e un’etica dello sguardo che produrranno molteplici e altalenanti filiazioni. Nonostante questa nuova ondata teorico-estetica montante, Pavia, in The Night Flier, sembra interessarsi ancora a una tessitura del racconto di stampo tradizionale e, forte di un soggetto che emana direttamente da Stephen King (autore dell’omonimo racconto da cui il film di Pavia trae spunto), realizza uno dei migliori e più sottovalutati horror dei ’90, riuscendo anche nell’impresa – decisamente rara, com’è noto – di condurre a buon fine una trasposizione kinghiana, capace di rispettare lo spirito senza tradire eccessivamente la lettera del racconto del Re.

Con Fender Bender Pavia sembra tornare sul luogo del delitto con vent’anni di ritardo – avendo perciò perso il grande treno/carrozzone “teorico” – e cerca di installarsi nella ritrovata dimensione contemporanea di ritorno al racconto filmico tout court (almeno in ambito horror), sfrondato di ogni sovrastruttura esplicitamente meta-testuale.

Partendo da un’idea semplice ma efficace (che succederebbe all’ignaro automobilista che si trovasse, in caso di tamponamento o simili, a scambiare i propri dati personali con uno psicopatico?), il regista orchestra una partitura limpida e senza fronzoli, privilegiando la chiarezza espositiva e concedendo poco o nulla a orpelli stilistici o narrativi eccessivamente macchinosi o, peggio, autoreferenziali. Dello slasher classico e di quello attuale che ne è figlio/figlioccio non manca pressoché nulla: dal gruppo di tardoadolescenti minacciati dal killer di turno alla colpevole assenza di figure adulte; dall’assassino apparentemente ubiquo e imprendibile (un efficace Bill Sage) – anche se, a tratti, inaspettatamente goffo, ma tutto lascia credere si tratti del suo gusto per il gioco e per la predazione – alla consueta eroina (Makenzie Vega) che gli dà filo da torcere; dal luogo isolato come teatro dell’azione allo scatenarsi di eventi meteorologici congeniali alla creazione dell’opportuna atmosfera; infine, dall’usuale body count – invero limitato e non troppo gory – dei vari comprimari al duello finale fra la protagonista e il villain. La presenza di blandi aggiornamenti legati alla contemporaneità (su tutti, l’utilizzo dei cellulari di ultima generazione da parte dei protagonisti), altrove usati e abusati a scapito della costruzione dell’intreccio, non nuoce alla tenuta drammaturgica dell’insieme, anzi ne migliora l’efficacia. Pavia riesce sovente a conferire la giusta tonalità e l’adeguato ritmo allo svolgersi delle vicende – mai troppo concitate e soprattutto sempre delineate con la dovuta lucidità narrativa, più sottile di quel che possa sembrare a una visione distratta – e si concede qualche tocco citazionistico, prevalentemente carpenteriano, con rimandi più o meno sfumati anche al Tarantino di Death Proof (2007), a The Hitcher (1986) o a Radio Killer (2001). È comunque nei continui slittamenti di prospettiva nell’evoluzione del duello finale (talora scontati fino al limite del cliché, ma proprio per questo più adatti a preparare il ribaltamento conclusivo) che Pavia dà il meglio di sé, con una chiusa beffarda, non del tutto prevedibile e sufficientemente aperta per lasciare spazio a cupe e imponderabili prospettive (eventuali sequel/prequel permettendo).

L’aspetto più interessante di Fender Bender si situa però – grazie all’estrema ed efficace stilizzazione di temi, azioni, situazioni – nella sua paradossale dimensione di “teoria senza teoria”, vale a dire nel suo essere una sorta di prontuario, di agile breviario dello slasher, depurato dall’urgenza di riesaminarne le coordinate ricorrendo alla soluzione meta-testuale. Se, come scriveva Danilo Arona a proposito dello Scream craveniano del ‘96, «[…] l’unico horror possibile di fine millennio non è quello che ci racconta una storia, bensì quello che ci racconta come si racconta una storia», nel nuovo millennio, trascorsa la lunga e talora feconda fase di rielaborazione critica, connotata dal ripensare il cinema attraverso il fare cinema, si assiste a un riemergere progressivo della trasparenza del racconto, ineludibile esperienza mitica e mitopoietica che racchiude al proprio interno già tutte le coordinate per orientarsi nell’inquieto orizzonte dello sguardo, senza la necessità di esplicitarne la dimensione produttiva.

Fender Bender funziona quindi come piacevole incursione horror senza grosse pretese e soprattutto senza pretenziosità, ma si costituisce principalmente come emblematico segno del ritorno generale alla narrazione pura e semplice, in cui è la finzione tout court il motore di ogni vettore di senso, così come di ogni possibile astrazione teorica.

Autore: Gian Giacomo Petrone
Pubblicato il 18/01/2018

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