Festival di Venezia 2015 - La concorrenza
Introduzione al deludente programma di Venezia 72
Diciamolo senza giri di parole: il programma di Venezia 72 è deludente e ben al di sotto delle aspettative. Si dirà: i programmi si giudicano solo dopo aver visto i film. Verissimo. Ma è altrettanto vero che pur senza la prova della sala è possibile cogliere indicazioni abbastanza precise sulla linea editoriale di un festival, sulla sua identità. E allora: cosa ci dice questo programma?
Prima di tutto che l’Oriente è ormai sparito dai radar veneziani. Un solo film in concorso (il cinese Behemot di Zhao Liang) e appena 5 film in tutto il programma ufficiale. Una miseria. Resta da capire se questa carenza sia dettata davvero dalla debolezza del mercato asiatico, orientato verso l’alfabetizzazione cinematografica del proprio pubblico come ha lasciato intendere Barbera, oppure se è figlio di una scelta programmatica o peggio ancora di un’incapacità gestionale. Intanto una cosa è certa: Johnnie To ha preso la via di Toronto. Insomma, non un segnale incoraggiante.
La seconda indicazione riguarda l’America, molto presente in tutte le sezioni ma priva dei grandi autori in grado da soli di accendere entusiasmi e creare aspettative. Un trend che da qualche anno coinvolge anche gli altri festival europei, sebbene in misura minore. Fatte salve alcune eccezioni (il film di apertura Everest, Black Mass di Scott Cooper) il contingente americano è rappresentato da cineasti diversissimi per estetica, formazione, percorso, sensibilità, e tuttavia è una pattuglia che potremmo collocare nel calderone indistinto (e un po’ facile e forse neanche tanto corretto, lo ammettiamo) dell’indie. Lo è senza dubbio Laurie Anderson, compagna di Lou Reed, che a Venezia porta un film sperimentale sul concetto di perdita (Heart Of A Dog); lo è Charlie Kaufman, sceneggiatore di Essere John Malkovich e Se mi lasci ti cancello, nonché autore di Synecdoche New York, che parteciperà in concorso con il suo primo film di animazione in stop motion (Anomalisa); e lo sono anche Cary Fukunaga (Beasts Of A No Nation) e soprattutto Drake Doremus (Equals), lanciato qualche anno fa dalla più importante fucina indie americana che è il Sundance. Non c’è alcun giudizio di merito su questo, ovviamente, anche perché sono tutti cineasti interessanti e rispettati. L’aspetto preoccupante però è l’assenza dei pezzi da novanta americani che anche quest’anno diserteranno il lido a vantaggio di Toronto (Ridley Scott) e New York (Zemeckis). Segno di una concorrenza sempre più forte con i due festival nordamericani, certo, ma anche della debolezza veneziana e della sua direzione artistica di opporre una qualche resistenza. E proprio su questo punto il presidente Baratta è stato chiarissimo nella sua introduzione, quando senza giri di parole ha parlato di “crescente competizione tra numerosi festival e della crescente competizione tra questi e le altre forme di promozione sul mercato delle opere cinematografiche”.
Eh già perché il problema non è solo la concorrenza ma più in generale il rapporto con le grandi case di distribuzione che reputano sempre più inutili (per non dire peggio) i festival, specialmente quelli europei. Il caso di Guillermo Del Toro è emblematico in tal senso. Nonostante un corteggiamento abbastanza insistente di Barbera e nonostante la volontà positiva del regista, il film uscirà nelle sale senza passare per Venezia né altri festival. Ad essere maliziosi verrebbe da pensare che l’introduzione di Baratta sia servita, appunto, ad anticipare le critiche. Ma il risultato semmai è un’ammissione di debolezza che genera sconforto. Tanto più se queste parole vengono poi ribadite in conferenza stampa dove, tra l’altro, si ammette candidamente che in Italia è sempre più difficile fare un festival. Insomma tutto fuorché un biglietto da visita accattivante per la stampa estera e soprattutto per gli sponsor e per il pubblico straniero. I giornalisti italiani invece non se ne sono nemmeno accorti. Il poker in concorso (Bellocchio, Guadagnino, Gaudino, Messina) basta e avanza per infarcire di retorica nazionalista le pagine di cultura e spettacolo dei quotidiani.
Spiace ammetterlo, ma le cause di questo difficile momento non possono essere ricondotte esclusivamente alla debolezza del paese Italia incapace di fare sistema, e ancor meno alla contingenza internazionale. Certamente hanno un loro peso ma non sono determinanti. Intanto perché stiamo pur sempre parlando di un evento da svariati milioni di budget con una storia ed un prestigio che pochi altri possono vantare. E poi non ci pare che gli altri festival stranieri patiscano allo stesso modo tale contingenza. Locarno, ad esempio, gode di ottima salute. Anzi, non è mai stato così in forma, anche grazie al lavoro determinante del suo direttore Chatrian che quest’anno ha messo in piedi un programma straordinario, in perfetto equilibrio tra ricerca e intrattenimento. Ecco, la ricerca, quella di cui si è parlato a sproposito nel corso della conferenza stampa veneziana. Dove sarebbe la ricerca in questo programma? Nelle dosi massicce di esordienti? Nella presenza fuori concorso del terzetto Tsai Ming-liang – Wiseman – Maresco da anni abbonati al Lido? Nella sezione Orizzonti, che ogni anno assomiglia sempre più ad Un Certain Regard minore? Per carità, nessuno mette in dubbio il coraggio nell’investire sugli esordienti e sui giovani registi, ma da qui a farla passare come una scelta esclusivamente artistica ce ne passa. Il sentore, semmai, è di una scelta di ripiego, di una necessità oggettiva nel far fronte ad un momento estremamente complicato in cui persino grandi autori come Desplechin, Garrel, Miike, Gomes, Weerasethakul, Mendoza, Kawase e Porumboiu preferiscono andare in Un Certain Regard oppure alla Quinzaine piuttosto che aspettare il concorso veneziano.
Per fortuna ci sono anche le note positive ed è giusto rimarcarle. Come ad esempio la presenza considerevole di film latinoamericani oppure il ritorno di cineasti di primissimo livello quali Sokurov, Skolimovski, Gitai, Allouache, Loznitza e i sopracitati Tsai Ming-Liang e Wiseman, nonché un contingente italiano di qualità non solo in concorso ma anche nelle altre sezioni (Caligari, Maresco, Pannone). O ancora la conferma di un sicuro talento come il giovane turco Emin Alper, qui in concorso con il suo secondo film Frenzy, dopo essere passato al Forum di Berlino con il precedente Beyond the Hill. Ma non basta per un festival del calibro di Venezia. Ci auguriamo vivamente di essere smentiti alla prova dei fatti, quando finalmente saranno solo i film a parlare. Perché, nonostante qualcuno possa pensare il contrario, non proviamo alcun piacere nello scrivere articoli di questo tipo.