Venezia 72 / La calle de la amargura
Il nuovo film del maestro messicano Arturo Ripstein è la discesa infernale nella putrida “strada dell’amarezza”.
Intorno all’orrido set della “strada dell’amarezza”, il maestro del cinema messicano Arturo Ripstein costruisce la sua nuova, straziante opera. La calle de la amargura è un manifesto di cinema purissimo popolato di freaks, scarti della società, gemelli nani e vecchie puttane. Con una messa in scena scevra, essenziale, fermissima nel suo distacco, quello di Ripstein è lo sguardo imperturbabile nei confronti di un destino cieco e crudele. Eppure La calle de la amargura riesce a mantenersi miracolosamente in equilibrio, non cade mai nel cinismo di tanto cinema contemporaneo, né affonda nell’ironia postmoderna con cui oggi si rileggerebbe colpevolmente Browning. Sussistono invece flebili tracce d’amore, fiochi punti di luce da ricercare nel buio, perfino quando ogni cosa sembra perduta. E’ decadente, certo, è ripugnante, eppure, malgrado tutto, rimane l’umanità.
In questo noir d’altri tempi che somiglia a tanto ma non somiglia a niente, Ripstein evita le deviazioni irrazionali e surrealiste del suo maestro Buñuel, inscena un realismo putrefatto, vischioso, altamente sgradevole ma mai compiaciuto di sé.
A popolare quest’universo narrativo, una galleria di personaggi che definire underground sarebbe un eufemismo: prostitute di terza età che rimpiangono la giovinezza perduta, wrestlers nani che non si tolgono mai la maschera, nemmeno per scopare, papponi travestiti che se la fanno con ragazzini del quartiere. All’interno di questo putridume limaccioso ed osceno, Ripstein non cerca mai la fragile, artefatta poesia del sottosuolo, né insiste troppo sulla dimensione grottesca, messicana della strada e de la muerte. Al contrario, procede asceticamente per piani fissi sino a trovare, senza ricercarla minimamente, un’autentica malinconia freak, una tristezza disarmante che colpisce lo spettatore come un urlo straziante. Il film diviene quindi testimonianza di un dolore impossibile da seppellire. Non a caso esiste un solo personaggio esterno al degrado morale e visivo cui assistiamo, ed è quello di una giovane farmacista che – guarda caso – sarà il deus ex machina dell’intero marchingegno narrativo: il candido biancore del camice, la purezza limpida, cristallina di chi non ha nulla da nascondere, l’innocenza incorruttibile che segue l’iconografia della santa: è quest’estraneità la dinamite, l’incarnazione stessa di un destino che non fa sconti.
Perché, in fin dei conti, La calle de la amargura inscena il bisogno umanissimo di dare - e ricevere - amore, a partire dalle due prostitute che si affidano l’una all’altra, perché non hanno nient’altro, nessun’altro al mondo. In questo senso è un’opera sulla solitudine estrema del freak che trova l’unica valvola di sfogo, l’unica vera libertà del disprezzo incondizionato nei confronti dell’altro. E, in fin dei conti, la crudeltà è sempre stato il veicolo privilegiato dell’amore.