Incontriamo in un hotel del centro di Roma Yousry Nasrallah, uno dei maggiori esponenti della scena cinematografica africana e assoluto nome di punta del cinema egiziano, per parlare del suo film After the Battle (Après la Bataille, in francese), in Concorso a Cannes nel 2012 ed evento speciale d’apertura della diciannovesima edizione del Med Film Festival. La rassegna ha preso il via al Museo MAXXI a Roma lo scorso 21 giugno proprio con la serata inaugurale che ha visto la consegna a Nasrallah di un prestigioso premio alla carriera, e proseguirà a pieno regime con la sua programmazione dal 24 al 30. Si tratta di un’occasione ghiotta per tornare sul film insieme al suo autore e per sviscerare un’opera dalla portata storica sicuramente non indifferente: After the Battle è infatti uno dei primi film se non il primo in assoluto a riflettere sulla recentissima rivoluzione araba, muovendo dalla battaglia dei cammelli di Piazza Tahrir del 2 febbraio 2011 e costruendo intorno alla realtà storica una storia d’amore inventata che funge da cornice di finzione.
Mr. Nasrallah, come nasce il progetto del film?
After the Battle parte assolutamente dalla realtà. Mi trovavo in Piazza Tahrir durante gli otto giorni e volevo fare un film proprio per mostrare la battaglia dei cammelli. Ho girato lì, sfruttando una sorta di barriera per impedire ai cavalieri di respingere le telecamere oltre quella zona. Tutto a dire il vero parte da delle immagini che ho visto su Youtube, dei frame davvero umilianti e violenti in cui si respirava tutto il peso di una precisa volontà di togliere dignità alle persone e agli strati meno consapevoli della popolazione. Come se a priori quella gente fosse ghettizzata, come se si dicesse loro che non potevano capire nulla in quanto poveri, analfabeti e stupidi, dei poveri illetterati che potevano solo essere vessati. Persone di cui non vedevo le facce, in virtù proprio della negazione di una dignità umana di base, una realtà che non risparmiava neanche quei bambini che io mostro all’inizio del film e in vari altri punti e che sognano di diventare cavalieri. Il mio, in buona sostanza, è proprio un film che prima di ogni altra cosa vuole ribadire il concetto di dignità umana, ha questa urgenza prima di tutto il resto.
Perché ha scelto come protagonista una guida turistica che ha combattuto per Mubarak e quindi in difesa del regime?
Anche in questo caso, perché è tutto accaduto davvero, molto semplicemente. Dato che questi eventi si sono realmente verificati io mi sono sentito coinvolto in tutto ciò, non era mia intenzione fare del simbolismo di alcun tipo, nella maniera più assoluta. Mi sono confrontato direttamente con la realtà, nient’altro. L’uso che i media fanno di quelle immagini era invece solo ed esclusivamente al servizio di fini spettacolari. Un’abitudine comunicativa che tende a porre un vero e proprio ostacolo, una barriera che prima di ogni cosa agisce contro la conoscenza reale delle cose.
Il film contrappone due classi sociali, la borghesia incarnata dalla ragazza e il “proletariato” incarnato da Mahmoud. Dalla visione del film emerge un Egitto diviso sia socialmente che anagraficamente. I protagonisti della rivoluzione, ossia le giovani generazioni, appaiono distanti dalle classi popolari e incapaci di comprendere le loro esigenze. E’ un’osservazione che la trova d’accordo?
Quella che lei avanza non è solo una questione egiziana, trovo che appartenga un po’ a tutti i paesi, la distanza tra le classi sociali e le generazioni. Nel mio film naturalmente si parla anche di classi sociali ma solo per il loro forte ancoraggio alla realtà, sono strutture che permeano la vita di tutti i giorni, non certo cose inventate. Reem (la protagonista femminile della storia, ndr) è molto naïve, cerca di fare le cose giuste, o per lo meno ci prova, come testimonia la sua fervente passione ecologista. Reem è un personaggio complesso e particolare, come d’altronde tante persone che conosco, senza necessariamente doverla ergere a rappresentanti di un’intera generazione. Molto diversa da Mahmoud (il protagonista maschile, ndr), che è un personaggio ben più trasparente, lineare e piano lungo tutto lo sviluppo narrativo. Reem soffre i problemi vivendoli in maniera molto personale e mi è stata utile per comunicare la cosiddetta euforia della rivoluzione, attraverso un linguaggio corporeo. Il mio è anche un film sull’illusione e perfino la pretesa di essere dei rivoluzionari e di risolvere i problemi, di poter cambiare le cose, insomma niente di solo verbale o solo intellettuale.
Il film mi sembra ragioni sulla diffusione delle nuove tecnologie e sul loro utilizzo. Nonostante questi strumenti leggeri le abbiano permesso di filmare in presa diretta gli incontri, nel film questi stessi strumenti vengono presentati in modo parzialmente negativo. Mahmoud ha paura di essere filmato e risulta vittima delle riprese amatoriali di Piazza Tahrir. Crede che il suo film sia anche una riflessione sul gesto del filmare come scelta morale?
Senza dubbio, si tratta sempre di una scelta morale (e su questa frase Nasrallah non nasconde di certo il tono appassionato e accorato della sua affermazione, che asserisce con vigore, ndr). Penso alla lezione del vostro Rossellini, di Robert Bresson, perfino del Buñuel de L’angelo sterminatore. Filmare è una scelta morale e il mio film parla anche di questo, della scelta morale insita in quest’atto. Ogni singola scelta, in fondo, è una scelta morale: un primo piano è una scelta morale così come lo è ciò che va mostrato e ciò che invece va mantenuto fuori campo, dove bisogna tagliare, e via discorrendo. L’uso della digital camera, che ormai rientra nei mezzi all’ordine del giorno e non è neanche più classificabile come nuovo strumento a dire il vero, è una scelta estetica e con essa è tutto più facile perché occorre anche meno luce. Per filmare la manifestazione ho usato una Canon mentre mi sono servito di una piccola camera per filmare le corse dei cavalli nel deserto.
A proposito delle riprese documentaristiche, mi sembra che il film se ne serva per aprire le maglie della narrazione ed ibridare forme narrative classiche, come può essere il melodramma, genere tradizionalmente molto vicino alla cinematografia egiziana. E’ possibile, secondo lei, leggere il film anche come un tentativo di andare oltre determinati schemi narrativi e con essi, oltre una tradizione specifica?
Personalmente non faccio molte distinzioni tra finzione e documentario. Non è una questione di tradizione ma di come filmare. La differenza risiede sempre nel filmare, ma non si tratta anche in questo caso di una questione centrale del mio film. After the Battle parla piuttosto di come trasformare un amico in un nemico.
Mi pare emblematico anche il finale che sembra esprimere il desiderio di andare oltre l’eredità storica, rappresentata dalla Piramide che Mahmoud scala faticosamente nell’ultima sequenza del suo film. Si trova d’accordo con questa lettura?
Trovo che si tratti di una sovrainterpretazione. Io non ho inventato niente, non era mia intenzione ricorrere a simbolismi di alcun tipo e come ho già detto mi sono confrontato direttamente con la realtà. Tra l’altro la scena non era neanche nella stesura effettiva della sceneggiatura, è stato il mio attore a volerla fare, un’idea che io ho apprezzato quando lui me l’ha proposta e che ho deciso di inserire nel film.
Lei ha parlato di Rossellini e Bresson alludendo al loro cinema come a un caposaldo importante per la sua formazione di filmaker. Quali altri film e registi sono per lei e per il suo cinema fonte di ispirazione nonché modelli da seguire?
Probabilmente Europa ’51 è il film che ho visto più di ogni altro durante la lavorazione di After the Battle e di Rossellini amo moltissimo anche Stromboli, terra di Dio. Adoro anche Fassbinder e il melodramma di Douglas Sirk. Per non parlare del primo Kurosawa, quello in bianco e nero, e di Kenji Mizoguchi, quello sì che era un cinema davvero magico.
Il cinema italiano che si mosse in scia al magistero rosselliniano, non a caso, è una delle cinematografie che più nello specifico ha influenzato il cinema dei paesi nordafricani, a più livelli e latitudini…
Vero, e non è un caso. La condizione di prostrazione umana e fisica dell’Italia degli anni ’40 era la stessa dell’Egitto di oggi, c’è una sorta di stretta vicinanza. Inevitabile, quindi, che nei riguardi dei vostri film dal nostro punto di vista si instauri una specie particolare di immedesimazione.