Speciale MUBI / Filmstudie
Di esperienza filmica e voyeurismo spettatoriale al tempo delle OTT.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Sono ossessionata dalle immagini da sempre: scatoloni strabordanti di immagini di famiglia, album del matrimonio dei miei, album di nascita di noi tre fratelli, rullini mai sviluppati, scampoli di pellicole e filmati datati 1975 sui comizi comunisti di mio nonno. Vedere tutto e morbosamente. Perché l’immagine è un evento, una esperienza continua di molteplici prospettive sul mondo, una trasformazione della percezione che abbiamo di noi stessi.
Un film che spiega questa parte di me per così dire “voyeuristica” è Fimstudie (Film Study) di Hans Richter, cortometraggio sperimentale girato nel 1929, scoperto nel tempo della mia formazione e rivisto oggi nel 2020 attraverso MUBI. Più che uno "studio del film", Filmstudie è uno studio dell'occhio, o meglio delle modalità di visione che l'occhio può sperimentare.
Nel delicato periodo storico che stiamo vivendo, e soprattutto nella fase del Lockdown, il cinema ha prodotto sguardi nuovi, sguardi altri, attraverso la spasmodica frequentazione di piattaforme OTT: MUBI, RaiPlay, i servizi in streaming delle varie cineteche. Esse strappano il film dal suo contesto di destinazione originario, ovvero la sala cinematografica, per consegnarlo a nuove formule di esperienza spettatoriale. Dalla visione condivisa si è passati a una visione ancora più intima e privata e ciò ha rilanciato la necessità di riflettere sulla dimensione di crescita gnoseologica dello spettatore, movimento di cui il cinema, e in questo caso Filmstudie, è paradigmatico. Si tratta di una crescita indipendente dalle modalità di fruizione del film: «un oggetto muore quando lo sguardo vivente, disciplinato ad interpretarlo, scompare», per citare Les statues meurent aussi (1953) di Chris Marker e Alain Resnais. Sì perché la vera esperienza artistico-spettatoriale si avvera nell'insopprimibile incontro tra soggetto osservante e opera d’arte/film e non in luoghi e tempi specifici. Un incontro che il concetto gadameriano di trasmutazione in forma esplica splendidamente: con trasmutazione non s'intende un mero cambiamento bensì che un qualcosa, tutto in una volta e in quanto totalità, è qualcosa d’altro. Nella definizione di trasmutazione è incluso anche il valore gnoseologico dell’arte, e ciò significa che l’esperienza artistica rappresenta una vera e propria esperienza conoscitiva sia del reale – comportando che tale trasmutazione non contempla semplicemente il trasferimento in un altro mondo ma in una nuova conoscenza del mondo stesso in cui viviamo – sia di chi il mondo lo esperisce: l'esperienza artistica, e dunque cinematografica, è tale quando suscita un cambiamento nelle prospettive di chi la vive.
Esemplificativo di questo Zwiesprache, ovvero di questo dialogo tra immagine e spettatore, in Filmstudie è sicuramente la sovrimpressione tra occhio e volto umano a lasciar intendere la costituzione di una nuova identità soggettiva e di modus videndi rinnovati.
Dunque, alle strategie di visione proprie delle piattaforme OTT e alla contemporaneità dello spettatore rispetto ad esse (nel senso di essere immanente alla visione) è strettamente raccordata una riflessione sull'assenza di uno statuto ontologico sicuro dell'immagine che porta ad una continua messa in discussione e rielaborazione sia del concetto di sguardo che del concetto di forma: «Una forma senza sguardo è una forma cieca. Ha bisogno di uno sguardo, certo, ma guardare non è semplicemente vedere, e neanche osservare con maggiore o minore “competenza”: uno sguardo suppone l’implicazione, l’essere-affetti che si riconosce, in questa stessa implicazione, come soggetto. Reciprocamente, uno sguardo senza forma e senza formula resta uno sguardo muto»[1], scrive George Didi-Huberman.
Difendendo il principio di continuità tra esistenza e film, più che tra film e luoghi e mezzi di fruizione di quest'ultimo, ancora più durante il periodo di quarantena, le piattaforme OTT hanno recuperato l'immagine cinematografica nel suo valore di strumento auto-comprensivo per lo spettatore: il soggetto si conosce avendo, grazie a uno spettro molto vasto di rinnovati punti di vista e nuovi approcci, una più raffinata prensione percettiva di sé oltre che del mondo.
[1] Didi-Huberman G, L'immagine brucia, in Pinottti A., Somaini A, Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2009, p.258.