Speciale MUBI / Carnival Of Souls
La ri-locazione della visione come correzione di rotta di una storicità mancata: il caso del cult di Herk Harvey.
[Questo articolo fa parte di uno Speciale dedicato alla piattaforma di streaming on demand MUBI, un focus monografico composta da una galleria di recensioni contaminate da riflessioni teoriche, emotive, autobiografiche, per riflettere trasversalmente sul tema della cinefilia on demand e sul più generale rapporto che intessiamo oggi con le immagini. Il progetto è stato presentato e inquadrato nell'editoriale "Di MUBI e del nome del cinema", che potete trovare qui].
Mi è tornato in mente qualche mese fa, mentre ascoltavo per caso un pezzo di Lana del Rey. 13 Beaches inizia con il campionamento di una voce femminile, che recita: «I don’t belong in this world, but that’s what it is. Something separates me from other people, everywhere I turn there’s something blocking my escape». Ci ho pensato un momento: quelle parole mi hanno ricordato una scena tratta da un vecchio film, che avevo probabilmente visto. Le ho subito cercate online e ho scoperto che si trattava della voce dell’attrice americana Candace Hilligoss, protagonista di un piccolo horror americano degli anni sessanta, diventato successivamente (come spesso capita a molti b-movie di quegli anni) un vero e proprio oggetto di culto.
Avevo visto Carnival Of Souls (1963), unico film uscito in sala del regista della Centron Films Herk Harvey, qualche anno prima su YouTube: il film, non avendo mai ottenuto un copyright nel mercato americano, è ancora oggi in public domain negli Stati Uniti, e dunque disponibile integralmente sulla piattaforma di streaming gratuito più importante del mondo. Il titolo di Harvey mi aveva incuriosito da subito: la prima volta lo avevo trovato citato in un volume americano sulle origini degli zombie movie, tra le principali fonti d’ispirazione di Romero, e lo avevo messo nel cassetto; qualche mese dopo, ai margini di una conferenza, mi capitò di parlarne con un collega più esperto, che mi consigliò di vederlo data la mia ossessione del periodo per gli horror americani (in particolare per quelli con gli zombie). Due indizi, per lo più a distanza recente, fecero una prova: mi convinsi e affrontai così la mia prima visione, da cui uscii fortemente turbato e impaurito.
Mi sembrò effettivamente che per il suo film d’esordio del 1968 Romero avesse “rubato” a piene mani da Harvey: non soltanto per la mutuazione del personaggio di Barbara di Night of The Living Dead da quello di Mary di Carnival Of Souls, ma anche per la fotografia, lo stile di ripresa e montaggio, la colonna sonora. Mi sarei aspettato, in realtà, un forte legame con l’universo romeriano anche sul piano dell’immaginario zombie, che invece non trovai a un primo sguardo. Quello di Harvey non mi sembrò tanto uno zombie movie (come mi aspettavo), quanto un film sulla transizione di una donna morta che, credendosi viva, non riusciva a trovare un suo posto nel mondo («I don’t belong in this world…»), in attesa assieme di compiere il passaggio definitivo tra la vita e la morte. Anche per questo ricordo che collegai subito la vicenda del film al purgatorio di Shyamalan in Il sesto senso (quasi un remake, a ben pensarci, del film di Harvey), così come le suggestioni visive ad alcune trovate del Lynch di Eraserhead e Strade perdute. Rimasi sorpreso, e pensai che un film così terrificante mi sarebbe molto piaciuto vederlo al cinema, su uno schermo grande e al buio della sala, e non su una piattaforma online, in una qualità poco più che scadente. Per il momento, mi accontentai di aver ricevuto così tante suggestioni — oltre che di essermi preso molta paura.
Scorrendo qualche settimana fa il catalogo di MUBI, ho scoperto che Carnival Of Souls era disponibile sulla piattaforma in una versione restaurata in 4K da Criterion. Ho deciso di rivederlo, ovviando quantomeno al problema della scarsa qualità della dimenticabile visione di cinque anni prima. Deterioratasi da un po’ di tempo la mia ossessione giovanile per gli zombie, la seconda visione ha permesso di concentrarmi più sugli aspetti stilistici e formali che sui legami con l’universo dell’horror che tanto m’interessavano durante la prima volta. Anzitutto, ho verificato ancora di più come Carnival Of Souls sia un film di una modernità incredibile. Il budget di appena 33.000 dollari non ha, infatti, minimamente scalfito una ricerca formale quantomeno sorprendente per un B-movie dei primi anni sessanta. Oltre a essere un film seminale per il genere (Romero, Lynch, Shyamalan) ho notato quanto sia fortemente derivativo dal cinema che lo precede. Non solo delle nuove onde europee degli anni cinquanta e sessanta, ma anche del cinema moderno americano: i close-up, le inquadrature fuori asse, il sonoro in presa diretta, l’utilizzo di profondità di campo e piani sequenza con macchina a mano, mi hanno ricordato moltissimo cinema di Welles, Cassavates, Bresson, Godard. L’aura magica che circonda il film è costruita ad arte tramite l’alternanza di inquadrature scolpite sui paesaggi desolati che richiamano alla mente sia il realismo pittorico americano (i quadri solitari di Hopper) che il surrealismo francese (le fotografie parigine di Atget). I percorsi mentali/interiori verso l’abisso della protagonista suggeriscono, invece, la forte influenza dell’espressionismo (le dissolvenze di Epstein), del montaggio sovietico delle attrazioni (il ritmo forsennato di Ėjzenštejn) e, ancora, del surrealismo cinematografico (soprattutto il Cocteau di Orphée e il suo lavoro simbolico sugli specchi e le superfici riflettenti). Inoltre, le atmosfere sospese e le implicazioni fantastiche sembrano essere quelle di una puntata del primo ciclo televisivo di Ai confini della realtà, che tanto ha influenzato l’immaginario della fantascienza americana di serie B di quegli anni.
Nonostante questo, la principale e più immediata referenza del film è probabilmente lo Psycho di Hitchcock, uscito appena tre anni prima e da cui Harvey non può che essere stato influenzato. Anzitutto per i presupposti, visto che entrambi mostrano, nella prima parte, il viaggio in macchina di una biondissima protagonista in fuga: dalla propria vita per Marion Crane/Janet Leigh, dalla propria morta per Mary Hill/Candace Hilligoss. In aggiunta, entrambe le protagoniste sono naturalmente attratte da un luogo oscuro che sembra nascondere un mistero perturbante: il Bates Motel, dove vive rintanata la fantomatica madre di Norman; il padiglione Saltair, parco divertimenti abbandonato dello Utah dove sono intrappolate le anime in un vero e proprio carnevale tra la vita e la morte. Insomma: quello di Harvey è un film estremamente colto che, oltre a mettere in scena continue referenze “alte” alla storia del cinema, della fotografia, dell’arte, fa anche esplicito riferimento all’immaginario popolare dei B-movies, della fantascienza e della serialità televisiva americana degli anni cinquanta.
Vedere (o rivedere) Carnival of Souls oggi, su MUBI, ci consente dunque di cavalcare la vertigine del nostro tempo: recuperando l’esperienza filmica di un prodotto così pienamente intriso di cultura cinefila novecentesca su una piattaforma digitale proiettata verso il futuro (del cinema?); apprezzandone, in una qualità elevatissima (e quindi vedendo, rivedendo, spostandoci indietro/avanti col cursore dentro il testo), il pregio degli elementi formali e stilistici; riscattando un vero e proprio cult movie, derivativo quanto seminale, troppo sbrigativamente considerato “soltanto” un film di serie B, finalmente riscattato all’interno del pantheon della storia del cinema horror (e non solo) da una nuova fruizione ri-locata.