È cosa ben nota che una tra le maggiori tendenze del cinema italiano recente è quella di volgere uno sguardo verso il fenomeno dell’immigrazione o comunque verso la condizione dello straniero, attitudine mutuata da una delle caratteristiche narrative che ha reso grande il nostro cinema, ovvero la vicinanza con gli “ultimi”, le classi maggiormente disagiate della nostra società. Ne I corpi estranei, in un certo senso, avviene l’incontro tra due degni rappresentanti del passato e del presente del cinema realista italiano: Antonio, il padre di famiglia povero e spaesato che viaggia fino a Milano dalla provincia per accudire il figlio Pietro, neonato e malato di tumore, e Jaber, l’immigrato tunisino adolescente che veglia, assieme ai familiari, su un suo amico ricoverato nello stesso reparto. Volti di due realtà di vita differenti per origini ma accomunate dalla stessa sorte e soprattutto dallo stesso presente. Finisce così che la vicinanza forzata porterà i due a doversi, per forza di cose, confrontare, in un rapporto che oscillerà tra solidarietà e asperità, diffidenza e rare dimostrazioni di fiducia. Va detto, innanzitutto che entrambi i personaggi sono raccontanti senza retorica né banalità preconfezionate e il film riesce, in maniera esemplare, a mantenere tale coerenza fino ai titoli di coda, il che (duole dirlo), trattandosi di un film italiano, è quasi sufficiente a far gridare al miracolo: chi entra in sala aspettandosi una canonica produzione nostrana che tratta il tema dell’immigrazione (il quale troppo spesso viene utilizzato più per opportunismo commerciale che per reale solidarietà verso la condizione dell’immigrato) rimarrà piacevolmente sorpreso dal constatare che questo film è diverso. Anche perché, in fin dei conti, pure il personaggio italiano può pienamente definirsi uno straniero, un corpo estraneo, emarginato in un’Italia che non ha bisogno di gente come lui, condannato ad aggirarsi nei corridoi asettici dell’ospedale nell’attesa che suo figlio venga operato; a passeggiare per prendere una boccata d’aria nella periferia amorfa e buia della metropoli; e, dulcis in fundo, costretto a lavorare in un ingrosso ortofrutticolo assieme agli immigrati clandestini per potersi permettere il sostentamento necessario per stare vicino al figlio che invece ha tremendamente bisogno di lui.
I corpi estranei è un film sull’incomunicabilità che ha il grande pregio di non avere un approccio didattico nei confronti del pubblico, al contrario ci parla senza vergogna di argomenti già noti e ci mette di fronte a due realtà con le quali tutti sono entrati in contatto o che quantomeno sono abbastanza facili da immaginare. Si tratta di un film privo di scene madri, con un montaggio semplice ma incisivo e una regia del tutto disinteressata al virtuosismo fine a se stesso. Il tutto sembra voler mettere in risalto le indubbie qualità della sceneggiatura che, pur basandosi interamente sul punto di vista di Antonio (Filippo Timi appare praticamente in tutte le inquadrature) non si sbilancia mai, non abbandona il personaggio di Jaber, non prende inutili scorciatoie utilitaristiche e, come detto, non pretende di dare una lezione allo spettatore ma piuttosto mostra con inusuale sincerità quanto le differenze e le diffidenze possano portare inesorabilmente a ferire proprio chi più di ogni altro vuole darci una mano. Finale amaro, umanista, e di spiccata sensibilità artistica. Una nota di merito all’interpretazione a dir poco convincente di Filippo Timi che, oltre a dimostrare di aver amato il personaggio, recita in un incomprensibile dialetto dell’Italia centrale, talmente fedele alla parlata locale che alle volte ci sarebbe quasi bisogno dei sottotitoli per capire cosa stia bofonchiando. Una nota di demerito invece alla colonna sonora dei Baustelle, tremendamente svogliata e che davvero non fa onore a una delle rock band italiane di maggior prestigio.