A Complete Unknown

di James Mangold

James Mangold firma forse il suo film più politico, un'Odissea di formazione in cui il giovane Bob Dylan scopre cosa sia davvero il folk e l'America si riscopre un po' più sola, incapace di raccontare il suo passato, di parlare al suo popolo, di fidarsi dei suoi intellettuali, un passo più vicina all'abisso.

A Complete Unknown - recensione film Mangold

Forse era già tutto nello stranissimo, straniante incipit di Indiana Jones ed il Quadrante Del Destino, quello con il treno in corsa, la fuga, come nei western del canone e il protagonista interpretato da un Harrison Ford vistosamente ringiovanito a colpi di CGI, che si muove fluido e agile malgrado i quasi ottant’anni tra gli scompartimenti di quel treno come un personaggio di Call Of Duty. È un prologo che assomma in sé le fondamenta del cinema di James Mangold, il tentativo di ricostruire e preservare il passato, il suo rapporto prorompente e violento con il contemporaneo, forse soprattutto la tradizione e la presenza tangibile del suo regista sulla scena, che prende posizione, ragiona sui caratteri, sui limiti di questi clash. Tradisce in maniera giocosa la sua presenza, Mangold, dice “io sono qui” e forse evidenzia quanto in certo cinema contemporaneo l’emersione dell’autore tra le immagini stia tornando a essere un fatto non secondario e la decisione dell’esatta posizione del punto macchina (fino a esiti concettualmente coraggiosissimi, da Zemeckis all’ultimo Albert Serra) sia divenendo, di nuovo, un fatto politico.

Fare cinema, ancor meglio, posizionarsi all’interno di un flusso, di una tradizione, è un fatto fisico, sembra lasciar intendere Mangold, e forse è anche per questo che in A Complete Unknown sceglie di raccontare proprio “quel momento” della vita di Bob Dylan, quello della svolta elettrica, e forse è anche per questo che il film inizia con il primo di moltissimi pellegrinaggi del giovane cantautore al capezzale del malato ma ancora agguerrito Woody Guthrie, eminenza, archivio, senatore di quel folk di cui Dylan vorrebbe cogliere lo spirito e divenire erede. Dylan passeggia nella New York notturna, si perde, finisce in periferia, capisce che parlare con Guthrie è qualcosa di molto simile a una prova da conquistare e forse è solo attraverso questa strana lente tutta materiale, legata alla fatica, che Mangold pare trovare la quadra del suo cinema postclassico, qui forse all’apice di un passo convintamente analogico, con cui si affanna a costruire attorno al suo racconto di formazione un mondo che costantemente pare voler accogliere immagini, riferimenti, spunti tutti da riordinare: dallo sguardo sporco, quasi gonzo con cui D.A. Pennbaker raccontò il cantautore nel suo leggendario documentario del 1967 al mastodontico lavoro che Todd Haynes dedicò a Dylan agli inizi degli anni ’00,  passando per la polvere, il fumo, i libri e gli arredi eccentrici del Greenwich Village, per lo spirito del racconto di frontiera, come ha detto qualcuno, e soprattutto per una coralità quasi altmaniana (e se il primo referente del film fosse un classico come Nashville?).

Ci sarebbe da ragionare su questo approccio, su questa rincorsa all’archivio, su questa tradizione, su questa memoria ricostruita a forza di sangue e sudore (ancora, un fatto fisico…) su cui sembra stia perdendo il sonno parecchio cinema americano, o che comunque guarda a un immaginario mai così american made (anche Here, in fondo fa un discorso simile), come se certi registi intuissero qualcosa di catastrofico stagliarsi sull’orizzonte e volessero provare a preservare con le unghie e con i denti la cultura occidentale in tutta la sua complessità. A colpire, però, del florilegio di immaginari mosso da Mangold, è una singola inquadratura, un punto fisso che esorbita dal caos. A un certo punto, durante il primo incontro tra Bob Dylan e Sylvie Russo, lo sguardo di Mangold (come quello di Dylan) viene attratto da Alan Lomax, impegnato a registrare stralci del concerto che stanno ascoltando i due protagonisti. Alan Lomax è stato musicista folk ma soprattutto etnomusicologo tra i più importanti del secolo scorso. La sua vita è stata votata alla registrazione e all'archiviazione della memoria sonora americana, della sua tradizione popolare nel senso più stretto del termine, quello della pancia d'America, della provincia, che la crescente urbanizzazione e il progresso rischiavano di far scomparire. Non è scontato. Al di là di qualsiasi iperbole, A Complete Unknown potrebbe davvero essere contenuto in questa brevissima sequenza, che non solo sostiene il racconto ma forse definisce senza possibilità di fraintendimento il senso dell’operazione di Mangold e del suo ruolo all’interno di essa.

A Complete Unknown - recensione film Mangold

L’archivio, ormai è chiaro, è uno spazio ideologico ma in Mangold la sua costruzione nasconde qualcosa di accademico, didattico in un certo qual modo. Si riuniscono immagini, spunti, dettagli per rimettere ordine nella scala dei piani e delle priorità, per reimparare ad approcciare, a guardare la Storia, come in fondo già ha provato a fare Justin Kurzel nel bel The Order, che rimbalza, seguendo le coordinate del thriller, tra i numi del genere, da Sam Peckinpah a John Boorman a Point Break e Kathryn Bigelow. Ma forse anche per mettere in discussione ciò che si intende per Storia stessa.

È un film profondamente politico ma soprattutto coraggioso, A Complete Unknown, perché trova la forza di fare le domanda più scomode, di chiedersi cosa sia, davvero, la Storia, la tradizione, il passato e forse soprattutto di dire, apertamente, all'America contemporanea (non dissimile da quella di sessant'anni fa) che non sa più raccontare il suo passato, descrivere la sua tradizione, forse persino capire gli americani. E così il giovane Dylan lotta per posizionarsi in un flusso culturale protetto, tuttavia, da freddi intellettuali che si definiscono custodi del folk più puro ma che in realtà non possono essere più lontani dal popolo stesso, difensori di uno spazio polveroso, che non si guardano attorno per rendersi conto di quanto folk ci sia nell’R&B nero in cui Dylan sembra intuire il (suo) futuro.

Eppure sarebbe così facile riequilibrare lo scontro. Basterebbe uno scambio di chitarre, un avvicendamento sul palco di Newport tra Dylan e Johnny Cash, che Mangold inscena con un’ironia quasi da melò (che sia il “suo” Cash, quello di Walk The Line? Che sia un altro modo per dirsi “degno” del canone?), tradendo lo sguardo guascone di chi vuole portare la tua attenzione sull’architettura del racconto, sull’exploit finzionale che irrompe nella dimensione realistica. Come a dire che la pace, l’equilibrio competono solo al cinema, nel mondo vero c’è ancora troppo da fare per arrivare allo stesso risultato.

Autore: Alessio Baronci
Pubblicato il 08/02/2025
USA 2024
Regia: James Mangold
Durata: 141 minuti

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