The Brutalist

di Brady Corbet

Il genio, il trauma e ciò che della Storia resta sulla pelle e nella mente, in conflitto con l'art washing del Capitale.

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Era il 21 novembre del 2014 e Roy Menarini si chiedeva, in un pezzo sul sito di Scenari, rivista di approfondimento di Mimesis Edizioni, se, al pari di un Grande Romanzo Americano, si potesse individuare anche una categoria definibile Grande Film Americano. La risposta, affermativa, lo vedeva elencare, tra i possibili titoli, The Tree of Life di Terrence Malick, Boyhood di Richard Linklater, Interstellar di Christopher Nolan, Gran Torino di Clint Eastwood e Il petroliere di Paul Thomas Anderson. Ed è proprio da Il petroliere che il processo entra in una fase diversa, in un percorso inedito di de-spettacolarizzazione della Storia Americana e del Cinema Americano. O della Storia Americana così come raccontata dal Cinema Americano. Cos’altro è il film con Daniel Day-Lewis se non una rivisitazione di Greed, Il figlio di Giuda e Il gigante asciugata dello spettacolo? C’è in tutti un incontro/scontro tra Religione e Capitale, le due anime che intossicano l’America (che, infatti, nel successivo Vizio di forma sarà indicata come “tossica”). Quell’America che, nell’incipit di Il petroliere, partorisce (fisicamente, dalla terra) Daniel Plainview, ovvero la deriva sociopatica del Capitale cui si opporrà (ma è davvero così?) Eli Sunday. E quest’ultimo torna a sua volta, risorge (o continua a esistere) in The Master, dove cambia nome e diventa Lancaster Dodd (Lancaster come il Burt di Il figlio di Giuda, di nuovo), un uomo che fa del suo sapere (è un fisico) l’arma con cui incastrare i deboli (gli ignoranti, i creduloni). Fred Quell (Joaquin Phoenix), invece è un sociopatico come Daniel, la Guerra lo ha reso tale. La Guerra e quel Sogno Americano che viene promesso a tutti, ma donato a pochi. Fred è un rebel without a cause (il titolo originale di Gioventù bruciata) e Lancaster provvede a trovargliela (la Causa è il nome del culto che fonda). Ancora una volta l’America sembra fare tutto e il contrario di tutto: il capitalismo e la sua demonizzazione, la ribellione e il suo ingabbiamento (in Vizio di forma la tossicodipendenza e la disintossicazione). In realtà si tratta di due facce della stessa medaglia, ovvero il business. Tutto è affare in America.

La dialettica business/arte/architettura è anche quella alla base di The Brutalist, ma stavolta il protagonista è un immigrato (anch'egli rovinato come Quell dalla Guerra) che, pertanto, si scontrerà col razzismo latente di una élite che, proprio perché non originaria di un paese (al pari dello stesso László Tóth), si arroga un diritto di prelazione sulla terra che è solo e unicamente commerciale, acquisito coi soldi. Questa élite non è l'America, ne è diventata sua padrona grazie al denaro. D'altro canto in Cena con delitto di Rian Johnson e Finché morte non ci separi di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillett abbiamo due famiglie simili ai Van Buren di The Brutalist: ricconi che rivendicano una "storia" che non hanno e che trattano con ipocrita condiscendenza, salvo rivoltarglisi contro, chi considerano un usurpatore (un'immigrata nel primo e una “plebea” nel secondo). La differenza è che mentre quelli di Johnson e di Bettinelli-Olpin/Gillett sono prodotti di genere che inquadrano la prima America di Trump, Corbet, e non da ora, ha ben altre ambizioni autoriali (e il suo film acquisisce senso aggiunto nel venire distribuito durante il secondo mandato, non consecutivo, del tycoon americano).

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Quello intrapreso da Corbet è quasi un viaggio al contrario: un attore americano che professionalmente matura in Europa, tra Assayas, Bonello, Östlund, Haneke, Hansen-Løve e Von Trier, e che da questa prospettiva (corroborata dalla condivisione con la compagna e coautrice norvegese, Mona Fastvold, il cui ruolo è tutt'altro che ancillare), giunge alla sua terza regia (dopo The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo del 2015 e Vox Lux del 2018) per mettere in scena un'America "stuprata" i cui violentatori sono alla continua ricerca di una sorta di "art washing" con cui mondare i loro peccati mentre di fatto ne perpetuano l’abuso (si pensi ai Sackler – ancora una volta tossicodipendenza e disintossicazione come due facce dello stesso business - e al MET di New York, così ben raccontati in Tutta la bellezza e il dolore - All the Beauty and the Bloodshed di Laura Poitras). L'arte è fumo negli occhi dietro cui celare la logica del profitto, unico motore di un'intera nazione. Pure Corbet, un americano dal sentire europeo, ricorre a un ideale trompe-l'œil. Il suo fumo negli occhi è il VistaVision, formato di pellicola tipico del kolossal, per un'opera che, al contrario, è quasi intimista, e in cui gli unici campi lunghi sono a Carrara e a Venezia, mentre nella parte americana (che, in un gioco metalinguistico intrigante, è ricostruita a Budapest, ovvero nell'Ungheria da cui proviene il protagonista) prevalgono le inquadrature antropocentriche. I grandi spazi, l'immensità e la magnificenza, in The Brutalist, sono europee, negli Usa se ne può avere solo una riproduzione in sedicesimo. E allora qual è il Sogno? Quello rovesciato di una libertà, solo illusoria, di un europeo immigrato in America o quello di un autore americano libero di esprimersi solo in Europa (come Orson Welles, Joseph Losey e, di recente, Woody Allen)? La scelta è sicuramente dipesa anche dal budget limitato (10 milioni di dollari per soli 34 giorni di riprese), che non avrebbe consentito una ricostruzione tale da poter essere sfoggiata in inquadrature di ampio respiro, ragion per cui potremmo azzardare che The Brutalsit è un film brutalista, che punta all'essenziale, mostra la struttura, è imperfetto nel suo eccesso, disdegna gli orpelli che fanno lievitare il budget. È arte vs capitale. E l'arte vs il capitale è il cinema. Tutta la carriera da regista di Corbet è improntata su questa volontà di non scendere a compromessi con l'idea di merce che Hollywood auspica, e quindi al disegno, ostinatamente perseguito (come Tóth), di non farsi violentare dal Capitale. La sua libertà è rovesciata, è un'indipendenza conquistata con la diaspora. Ha un costo, ma è decisamente più contenuto rispetto a quello pagato da chi insegue il Sogno Americano.

Autore: Rosario Gallone
Pubblicato il 21/02/2025

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