Il caso Spotlight
Un illuminante e appagante esempio di cinema giornalistico dal sapore liberal, scritto meravigliosamente e congegnato in maniera impeccabile
C’è ancora, evidentemente, un cinema in grado di affermarsi attraverso doti sempre più rare come la chiarezza e la tenacia esplicativa, ed è un cinema che può e deve esistere ancora oggi, soprattutto in tempi di proliferazione selvaggia di immagini shoccanti e di un’estetica mediale che predilige lo strillo alla comunicazione, come d’altronde tanto giornalismo di pessima categoria è ormai abituato a fare, sulla carta stampa ma anche (e soprattutto) sul web. Spotlight di Thomas McCarthy, regista che ha già dimostrato il suo statuto di narratore tiepido e coinvolgente in film che sembrano somigliare moltissimo al suo stile calmo e riflessivo, si riconferma a livelli se possibile ancor più alti del passato firmando un’opera che coinvolge e avvince con precisione formale e accuratezza informativa: un lavoro (neo? post?) classico dalla prima all’ultima virgola, accorato e attento alle sfumature, diligente e concentrato sull’obiettivo da perseguire, vale a dire un film che sia civile e socialmente orientato e che soprattutto tragga dal miglior giornalismo alcune qualità come la limpidezza e un sano mix di efficacia esaustiva, piacere della fruizione e documentazione a prova di bomba, in grado di reggere l’urto della realtà e delle sue molteplici aggressioni esterne. Richiamando alla memoria, un po’ inevitabilmente, la tradizione del cinema liberal degli anni ’70, dei Pakula e dei Sidney Lumet, di Tutti gli uomini del presidente e di una corrente che sapeva informare, indignare e allo stesso tempo generare un cinema che fosse cristallino come uno specchio dal punto di vista morale e sapientemente congegnato da quello cinematografico, soprattutto per quanto riguardi i tempi della scrittura e la scansione dei ritmi del montaggio.
Spotlight, manco a dirlo, è infatti un film scritto benissimo e montato ancor meglio, assemblato e diretto con una sicurezza che trasuda profonda conoscenza della materia trattata e sincera passione per l’oggetto del contendere: nella fattispecie, di parla di uno scandalo che ha coinvolto l’arcidiocesi di Boston e che si abbatté sulla Chiesa Cattolica nel 2002, facendo uscire allo scoperto una vastissima serie di abusi perpetrati nella città americana ai danni di minori giovanissimi per mano di sacerdoti a lungo rimasti impuniti. Una vergogna portata avanti con la complicità e il silenzio reticente delle alte sfere del clero, che solo la somma bravura della redazione del Boston Globe e il suo fiuto investigativo - perché di questo si trattò, come il film ben restituisce - ha contribuito a portare allo scoperto, rivelando anni e anni di colpe insabbiate e di vite distrutte all’ombra di una Chiesa e di un parco giochi, binomio che nel film è suggerito con scaltrezza e una bella dose di amara lucidità.
Un’inchiesta divenuta celebre, premiata anche con il Pulitzer nel 2003, che nel film di McCarthy si traduce in un escalation di adrenalina e di scoperte, di ipocrisia sfacciata e verità volute, cercate, setacciate in ogni dove, per dovere e per passione, non certo per necessità o per convenienza, in barba a una società civile spesso complice silente delle abiezioni. I personaggi interpretati da Mark Ruffalo, Rachel McAdams e Michael Keaton, parte di un cast dalla felicissima alchimia, sono una sorta di famiglia allargata accomunata dal minimo comune denominatore di un’etica integra e inamovibile, che oggi può apparire inevitabilmente datata, a livello non solo cinematografico, trovando non molti punti di contatto col modo di raccontare il giornalismo contemporaneo quale nugolo di rivalità, spunti infiniti da filtrare e chiarificare e interessi dei poter forti da far coesistere.
Anche una serie come The Newsroom però, per restare ai tempi recenti, dopotutto non disdegna, accanto a tutto il resto, una sana dose di idealismo, di fuoco sacro e di trasporto. Perché il giornalismo, dopotutto, è un mestiere che più che per comodità spesso si fa proprio per passione, sposando le cause in maniera talvolta masochistica e logorante, basti pensare alla vita familiare allo sbando di alcuni personaggi di Spotlight, tutta lavastoviglie e cartoni della pizza, ostinazione lavorativa e rapporti di coppia deliberatamente in frantumi.
Un film laborioso e scrupoloso, quello di McCarthy, che non parla soltanto di uno scandalo, per dirlo nella maniera più semplice e immediata possibile, ma principalmente di etica della comunicazione e di ecologia del racconto, facendo coincidere la godibile costruzione filmica e il j’accuse puro e semplice, che però è sempre smorzato, eluso, problematizzato, mai proposto allo spettatore sul comodo piatto d’argento dell’indignazione a buon mercato. Difficile, oggigiorno, chiedere di meglio a un cinema con quest’impostazione e questi intenti, non edulcorato ma nemmeno aggressivo e teso a sputare delle sentenze per partito preso o in virtù di chissà quale odio aprioristico. E’ un film, Spotlight che dà peso semplicemente all’importanza delle parole e delle scelte, che procede impeccabile (inquadrature millimetriche, fotografia ottimale, ritmo lodevole) e con l’intelligenza di chi intende tallonare la verità e l’autenticità senza mascheramenti e false piste. Con la mente aperta, e di cuore.