Le donne della mia vita
Il terzo lungometraggio di Mike Mills è un delicato e personalissimo ritratto di tre generazioni di donne del Ventesimo secolo, senza dimenticare l’intimità e le storie dei suoi protagonisti.
La premessa: una mamma single nella Santa Barbara di fine anni Settanta, che si interroga su come crescere nel migliore dei modi il figlio adolescente, coinvolge nel processo educativo la ragazza che subaffitta una camera dell’appartamento e la migliore amica del figlio, dando vita ad un particolarissimo nucleo familiare allargato regolato da attenzioni sincere e goffi tentativi di insegnamento che non tarda a dar vita ad una riflessione intergenerazionale.
Annette Bening, Elle Fanning e Greta Gerwig posano splendidamente – senza imporsi sulla scena pur distinguendosi e valorizzandosi vicendevolmente – per Mike Mills facendo di 20th Century Women un coloratissimo ritratto della sfaccettata figura femminile del secolo scorso. Il regista statunitense torna ad occuparsi di coming-of-age stories e di conflitti generazionali come aveva fatto nei due lavori precedenti, facendo dell’incomunicabilità e del tentativo di colmare la distanza fra due poli distinti la più autentica matrice del racconto. Il punto di vista genitoriale, questa volta, viene abilmente frammentato in un coro intergenerazionale di voci femminili spesso e volentieri in dissonanza fra di loro. Le 20th Century Women del titolo sono allora le donne delle generazioni passate che si confrontano, allo stesso tempo, con il repentino mutamento della loro condizione socio-politica, con la figura maschile (nelle declinazioni di figlio, amico, amante) incarnata dall’adolescente Jamie e, non ultimo, con loro stesse.
Da bravo cineasta, aiutato dall’esperienza come video maker a riflettere sulla ritmicità con cui si accompagnano immagini e storytelling, Mills fa del suo cinema un discorso sul Tempo. Se in Thumbsucker – Il succhia pollice la dicotomia all’origine era quella che divideva, più classicamente, il tempo della formazione da quello dell’età adulta, il tempo dell’in-potenza da quello già attualizzato, e Beginners nasceva dalla ricerca di un incontro tra due dimensioni temporali private sfasate dall’evento della Morte, qui sono il tempo privato e quello della Storia a duettare, in un racconto che nasce dalla simultaneità di cronologie diverse. Ed è proprio il discorso della Storia, al quale si apre pian piano il film, a sancire l’inconciliabilità e l’impossibilità di una comprensione – nella stessa misura in cui fenomeni come internet o il punk sono inconcepibili per Dorothea o per una qualsiasi donna (o uomo) nata durante la Depressione – e a disegnare i contorni di uno sforzo educativo, di attraversamento, che non si realizza mai pienamente anche e soprattutto perché spesso le protagoniste non hanno nemmeno ben chiara la dimensione del loro dover essere di partenza.
Quella dell’educare è, non a caso, una pratica impossibile, come scriveva il Sigmund Freud de Analisi terminabile e interminabile, che si può portare avanti solo nella consapevolezza della sua impraticabilità. Dal “pensa con la tua testa” di kantiana memoria, alla necessità di un confronto diretto con l’altro, con la difficoltà e la sofferenza dell’altro che non può mai, tuttavia, trasformarsi in accondiscendenza, assistiamo ai tentativi di un genitore di trovare una risposta pratica a questa domanda impossibile – Come crescere un figlio in modo che diventi un brav’uomo? – e ad una meravigliosa dichiarazione di affetto di una madre nei confronti del figlio nella risoluta volontà di offrirgli il meglio, anche a costo di oscurarsi e condividere il compito genitoriale. Così, come avviene nel genere musicale della generazione emergente a metà degli anni Settanta, il punk, dove si dà più peso alla passione e all’intenzione di riuscire che al talento o alla tecnica, anche la storia raccontata dal film si carica di quell’autenticità che ci fa partecipare con trasporto anche ai tentativi più goffi di interazione delle tre donne con Jamie. Il racconto di formazione in questione si concentra, in questo senso, su un duplice protagonista, su un soggetto scisso tra colui che forma e colui che viene formato, dove i ruoli si intrecciano e si intercambiano sottilmente: un nucleo familiare allargato fatto di donne che apprendono sul loro ruolo e su loro stesse mentre si incaricano di educare, ed un adolescente che le mette continuamente alla prova mentre gli viene acconsentito l’accesso all’universo femminile con tutte le sue sfumature e complessità.
La scommessa vinta con 20th Century Women è stata senza dubbio quella di aver saputo armonizzare racconto privato e intergenerazionale, discorso teorico e dipinto personalissimo dei suoi protagonisti, ricerca estetica e onestà del racconto senza, ad esempio, indulgere nell’autocompiacimento o in una caratterizzazione spersonalizzata di un certo cinema indie à la Wes Anderson. E non è poco.