In occasione dell’inaugurazione dello spazio espositivo nelle ex officine di via Ghisleri, nel quartiere romano del Pigneto, che ospita Reload – prototipo di intervento culturale urbano, Point Blank ha avuto l’opportunità di intervistare l’ideatore di questo grande progetto destinato ad avere una forte attenzione mediatica, Gian Maria Tosatti.
Partiamo innanzitutto dalla genesi. Quali sono state le ragioni, le politiche, le esigenze che hanno ispirato l’ideazione e la realizzazione di questo progetto così ambizioso che, forse, potrebbe segnare un punto di svolta nel modo di concepire l’arte contemporanea a Roma e più in generale nel panorama artistico italiano?
L’idea è stata concepita al mio ritorno a Roma. Il proprietario di questo spazio mi ha proposto di realizzare un progetto culturale all’interno degli ambienti delle ex officine di via Ghisleri nei mesi in cui di fatto questi erano inattivi, nell’attesa di trovare nuovi acquirenti a cui cedere l’attività. Conosco il proprietario dello spazio da molto tempo, è un giovane architetto e quindi è anche una persona con una certa sensibilità per questo tipo di cose. Lui mi ha ricontattato dopo una trascorsa proficua collaborazione nel 2009, in cui ho realizzato, nella ex fabbrica della Lancia, La stanza bianca – landscape VII, lasciandomi, anche stavolta, carta bianca per quanto riguarda l’utilizzo degli spazi. Di conseguenza, trovandomi di fronte questo tipo di architetture con una serie di ambienti ben divisi che permettevano quindi di realizzare anche più eventi contemporaneamente, ho pensato che l’ideale fosse mettere in piedi un progetto molto più articolato. C’era da una parte la conoscenza di una pratica già affermatissima all’estero, quella di usare degli spazi temporaneamente vuoti, come ad esempio gli spazi commerciali che negli Stati Uniti a causa della crisi restano sfitti e quindi vuoti. Però, in questo caso ciò che mi premeva particolarmente non era solo la questione di usare uno spazio rimasto vuoto per realizzare un intervento, ma quanto cercare di prendere a pretesto il fatto che si fosse verificata una situazione simile a quelle che sono già delle pratiche ben consolidate altrove: un proprietario chiama un gruppo di curatori, o comunque una realtà culturale, per fare un progetto e provare a formulare un prototipo, un modello che possa essere veramente ripreso e importato. Lo scopo principale di Reload non è solo creare un evento, una esposizione, ma è proprio formulare una teoria su come funzionino questo tipo di attività. Roma ha bisogno di velocizzarsi, di restare al passo coi tempi, di trovare delle alternative che possano garantire un flusso continuo anche in periodi di crisi come questo, in cui si investe sempre di meno sull’arte contemporanea e quindi in cui c’è una totale mancanza di fondi preposti a questo settore. Riporto un esempio chiarificatore: nel settore immobiliare molto spesso i locali appena acquistati, a volte perché il mercato rallenta e dunque vengono a mancare i fondi per iniziare una nuova attività altre volte perché la burocrazia ha i suoi tempi tecnici, restano dismessi per un periodo più o meno lungo. In questi casi si può trovare il modo di rendere comunque produttiva questo tipo di risorsa che altrimenti resterebbe inattiva, e qui entra in gioco il nostro prototipo di intervento culturale. Non è più una questione solamente culturale, ma si parla proprio di rimessa in moto della produzione.
Entrando più nel dettaglio, chi sono i protagonisti di Reload? Dove si collocano solitamente nel panorama artistico romano? Perché anche loro hanno condiviso appieno questa tua esigenza? Gli spazi istituzionali romani come il MAXXI o il MACRO non riescono a stare al passo coi loro bisogni?
Sicuramente abbiamo cercato di dar voce a quei settori che ad oggi nel panorama artistico italiano soffrono maggiormente la crisi e l’abbiamo fatto formulando tre contenuti principali: il primo è quello che riguarda gli spazi no profit che stanno attraversando una profonda crisi qui in Italia perché manca una legislazione adeguata per poterli sostenere con fondi privati, il pubblico non li conosce o non li conosce abbastanza e, soprattutto, non li aiuta abbastanza. Il secondo punto vuole essere una riflessione su un altro grande problema romano che è la mancanza di “project rooms”. Roma vanta la presenza sul territorio di due importanti poli museali per l’arte contemporanea ma nessuno dei due ha ancora preso in considerazione la possibilità di istituire uno spazio simile. Situazione totalmente differente per esempio si presenta a Napoli dove ne troviamo addirittura due, una al MADRE già dal 2007, e l’altra al PAN. Tali spazi sono le porte di accesso con cui giovani artisti e curatori cominciano a confrontarsi con l’ambito museale ed è impensabile che nessuna di queste grandi istituzioni abbia ancora sentito l’esigenza di guardare cosa stiano proponendo i più giovani, gli artisti e i curatori del domani. L’altro punto che ci premeva esplorare era quello dell’incontro fra il mondo delle arti visive e il mondo delle arti performative. Lo scopo di questo approccio è quello di stimolare la creatività e le riflessioni degli artisti appartenenti ai due settori per cercare di rintracciare un percorso comune da portare avanti insieme; cercare di mettere insieme le ricerche che si conducono da anni e vedere quanto queste due sensibilità riescano ad incontrarsi e a fare un pezzo di strada insieme.
Quindi, se avessimo dovuto affrontare questi tre temi con un evento culturale a Roma in un momento come questo, in cui questi tre argomenti sono una vera e propria urgenza, avremmo dovuto disporre di circa cento mila euro e, in ordine, affittare un capannone di 3000 mq e contattare collaboratori e sponsorizzazioni tecniche che ci aiutassero a sviluppare tutta una serie di questioni, ottenendo così lo stesso risultato da un punto di vista soltanto contenutistico. Noi abbiamo fatto un passo in più: abbiamo aggiunto il modello di incidenza sulla produttività, abbiamo dimostrato come poter realizzare questo tipo di eventi con un costo decisamente più basso, quasi pari a zero. E questo ci è stato reso possibile anche grazie a tutta una rete di collaborazioni: le mostre hanno avuto il supporto finanziario di alcuni sponsor che sono parte di quella rete di contatti che i curatori sono riusciti a mettere insieme.
Protagonisti centrali di Reload sono sicuramente gli spazi no profit che tu dicevi essere in crisi. Puoi illustrarci le motivazioni del poco successo che hanno associazioni di questo tipo nel nostro territorio e perché, invece, in paesi come gli Stati Uniti, la Germania, la Gran Bretagna, questi spazi godono di ottima salute e, anzi, sono considerati fondamentali per lo sviluppo del territorio in cui operano?
Molto semplicemente negli Stati Uniti, ad esempio, c’è una legislazione molto diversa per quanto riguarda i finanziamenti dei privati agli spazi no profit che dà la possibilità ai finanziatori di detrarre il totale della spesa dalla propria tassazione. In Italia la legislazione non permette di detrarre il totale ma solo una piccola parte e inoltre gli italiani non sono sufficientemente informati sull’investimento etico, perché banche e Stato non hanno alcun interesse a perdere i propri privilegi in favore di un cambiamento dei comportamenti finanziari volti a proporre uno sviluppo sostenibile. Quindi, quando si tratta di investire nel settore della cultura si tende a preferire quelle grandi fondazioni che consentono anche di acquisire del prestigio, che conferiscono uno status sociale più elevato. Lo stesso accade negli Stati Uniti, normalmente anche lì i grandi industriali o i grandi collezionisti tendono ad investire maggiormente nelle grandi strutture, ma conservano sempre una piccola percentuale del fondo da investire nelle associazioni no profit minori. Perciò bisognerebbe instaurare una specie di reazione a catena per cui un atteggiamento di questo tipo diventi una pratica abituale di un certo numero di persone disposte ad investire sull’arte contemporanea e sui giovani. Ma Reload è solo la punta dell’iceberg; piuttosto dovrebbe mettersi in movimento la macchina istituzionale per creare una mentalità di questo tipo.
A questo proposito, come vi state muovendo nei confronti delle istituzioni politiche e delle istituzioni culturali MAXXI e MACRO? Pensate che da parte dei primi possa esserci un interesse concreto e soprattutto una disponibilità a venirvi incontro?
Crediamo fortemente che un limite allo sviluppo degli spazi no profit sia una ignoranza generalizzata non solo delle istituzioni politiche ma anche di quanti potrebbero fare molto per finanziare questi spazi. E infatti allo scopo di informare di quanto sta accadendo in questa città già da diversi anni abbiamo ideato due tavole rotonde. La prima, ha come argomento centrale gli spazi no profit, si terrà il 21 gennaio e saranno invitate le istituzioni, i privati, coloro che operano nel settore immobiliare, gli operatori del settore artistico, i giornalisti che maggiormente conoscono la situazione contemporanea italiana ed europea e gli operatori che vengono dall’estero affinché ci raccontino come si muovono le cose nel loro Paese. Tutti questi attori sociali saranno riuniti intorno ad un tavolo tecnico per discutere, per formulare nuove proposte, nuove idee, per conoscere le varie situazioni e per farci conoscere all’esterno perché da quando sto avendo la possibilità di incontrare le figure istituzionali per invitarle a questo incontro, mi rendo conto di quanto ignorino la realtà che si sta muovendo nel tessuto urbano. Informarli è già un passo avanti, perché devono sapere che questa realtà esiste, devono conoscere il suo ruolo, devono capire quanto sia importante aiutare le realtà indipendenti perché è qui che si formano gli artisti che un domani esporranno al MAXXI e le istituzioni pubbliche hanno il dovere di garantire una costante presenza di artisti italiani all’interno dei nostri musei. In fondo, seguendo questo modello di intervento culturale alle istituzioni è chiesto davvero il minimo sforzo. Devono solo prendere atto del fatto che la macchina sia del tutto funzionante e che se sono riuscito io, un privato cittadino con uno status sociale non particolarmente elevato, per loro la situazione sarà ancora più semplice.
Poi se la risposta dovesse essere negativa, allora ci saranno evidentemente delle ragioni di carattere politico, ma questo potrà in qualche modo essere accettabile solo una volta che tutti gli attori sociali di cui sopra saranno informati.
Per quanto riguarda il MAXXI e il MACRO stiamo invitando anche loro, avranno una tavola rotonda a parte, che si terrà il 25 febbraio, perché ovviamente a loro non serve spiegare cosa sono gli spazi no profit.
Qual è invece la tua posizione in quanto artista all’interno di Reload? Come mai hai deciso di non esporre? Mi hai parlato di prototipo, di un modello facilmente importabile… Saresti interessato a proseguire un percorso che fosse finalizzato a rendere abituale una pratica di questo tipo di intervento nel territorio, curando ad esempio altri eventi simili a Reload?
Ho deciso di non esporre innanzitutto perché il mio ruolo qui è un altro e assorbe la maggior parte delle mie energie e della mia attenzione. Penso che quella di curare una mostra e contemporaneamente esporre sia una scelta curatoriale molto precisa di cui non ho sentito il bisogno. Inoltre, vivendo per la maggior parte dell’anno a New York, volevo avere un’istantanea della situazione romana attuale, che, almeno da quanto è emerso dalle proposte portate in questo spazio, mi somiglia molto poco a livello estetico. Non ho nessuna ambizione di continuare questo progetto personalmente. Io sto realizzando il prototipo affinché altri possano svilupparlo e farne una pratica abituale. Il mio mestiere è un altro e vorrei continuare su quella strada, poi se dovesse ricapitare una situazione come questa in cui viene richiesta la mia personale collaborazione – dopo un’analisi delle condizioni – potrei anche pensare di lavorarvi. Ma sarei molto più soddisfatto se fossi invitato ad iniziative di questo genere o ad esporre in una project room del MAXXI o del MACRO o, ancora, invitato ad un evento insieme a degli spazi no profit.