Antonio e Jaber. Hanno due nomi I corpi estranei di Mirko Locatelli, che torna alla regia dopo una serie di documentari e il lungometraggio d’esordio nel 2008, Il primo giorno d’inverno. Sono Filippo Timi e Jaouher Brahim che sullo schermo diventano traiettorie imprendibili, linee sempre sul punto di incrociarsi ma condannate al limite, a una distanza. Un uomo e un adolescente in un ospedale milanese (e nei non luoghi ai suoi margini). Un italiano e un nordafricano: il primo per assistere suo figlio Pietro, di un anno, malato di cancro, l’altro per stare vicino all’amico Youssef. È un corpo estraneo, insieme a pochi altri, il film di Locatelli nel cinema italiano. Perché rischia, consapevole com’è che il dolore e la paura sono confini da proteggere, perché il racconto qui è territorio disseminato di domande, è lo spazio di chi lo guarda. Scritto insieme a Giuditta Tarantelli, moglie co-sceneggiatrice e co-produttrice dei lavori del regista, I corpi estranei, dopo la presenza in concorso all’ultimo Festival di Roma, sarà nelle sale italiane dal 3 aprile.
Cosa c’è fra il tuo primo lungometraggio di finzione, Il primo giorno d’inverno, e I corpi estranei? Dove si incontrano questi due film?
Quando fai un film non pensi mai alle analogie o differenze con il precedente, anche perché da quando lo scrivi a quando arrivi al montaggio definitivo passa molto tempo e la materia si modifica a tal punto che in certi momenti sembra sfuggirti dalle mani, fai molti sforzi per tenerla insieme, quindi ciò che pensavi fosse in un certo modo nella prima fase di scrittura, e che avesse analogie con taluni aspetti del tuo precedente film, può cambiare, grazie al lavoro con gli attori, con la sceneggiatrice o col montatore, e grazie alla vita che si interseca con il set. Lo stile di un regista è mutevole, di giorno in giorno, di ora in ora, nel mio caso è una ricerca sfrenata, sul linguaggio, sui corpi, e probabilmente in Antonio e Jaber de I corpi estranei c’è un po’ di Valerio de Il primo giorno d’inverno, ma non so dirti cosa.
I corpi estranei sono quelli di Antonio e Jaber, che difficilmente riescono a toccarsi, c’è sempre qualcosa di trattenuto nel contatto, anzi nella possibilità di un contatto. Ecco, vorrei chiederti cosa sono per te i corpi, questi corpi, cosa rivelano e cosa nascondono.
I corpi sono solo contenitori, mi interessava che fossero come pentole a pressione, cariche di energia compressa al loro interno. Corpi che trattengono tutto, la gioia, il dolore, la paura, il pianto e non si svelano mai per quello che sono: Antonio non deve rivelare mai la sua fragilità, non può accettare o donare consolazione a Jaber, i loro corpi non possono toccarsi e ogni volta che accade avviene un corto circuito e si riparte con un reset, una nuova consapevolezza.
Qual è stato il lavoro con Filippo e Jaouher, un professionista e un non professionista? Cos’è accaduto quando si sono incontrati?
Con Jaouher il lavoro è durato un anno, poco più di un mese con Filippo: due registri completamente diversi. Ci sono state analogie di metodo, soprattutto nel lavoro sul linguaggio, entrambi hanno recuperato la lingua dei loro padri, l’arabo e l’umbro. Le differenze: con il giovane Jaouher ho costruito, partendo dalle emozioni primarie, un personaggio inconsolabile ma forte; con Timi ho chiesto di lavorare sullo svuotamento, asciugando il più possibile il gesto, il movimento e la parola. Quando li ho fatti incontrare per la prima volta c’è stato un corto circuito, due poli elettrici che entrano in contatto, molto simile alla prima stretta di mano tra Antonio e Jaber.
Il bambino, il figlio di Antonio, qui di fatto non ha madre, che è solo una voce lontana proveniente da un telefonino. La linea padre-figlio è quantomeno inedita in un racconto familiare come questo…
Era importante che fosse così, il film è nato proprio dall’esigenza di raccontare di un uomo solo con il suo bambino: la sceneggiatrice ed io eravamo attratti dall’idea di poter costruire un racconto su una “Madonna” con bambino tutta al maschile.
Mi pare poi che ci sia una cura speciale dedicata al tempo nel film…
E’ un film sull’attesa, il film è costruito completamente in piano-sequenza, in ogni scena tempo filmico e tempo reale coincidono, il dosaggio del tempo è finalizzato a far perdere allo spettatore i riferimenti spazio-temporali, così come accade ad Antonio.
Altrettanto meticolosa, infatti, mi sembra la tua idea dello spazio. Hai racchiuso, ad esempio, gli ambienti dell’ospedale quasi sempre in inquadrature strettissime.
Il lavoro sul tempo coincide con una mappatura precisa dello spazio: i luoghi del film sono tutti “non luoghi”, sale d’aspetto, corridoi, parcheggi, mercati notturni, sfasciacarrozze, o luoghi dell’attesa; li scopriamo tutti attraverso il corpo del protagonista, disorientato. Per questo occorre perdere l’orientamento per riacquisirlo piano piano, attraverso lo svolgersi della trama, che poi trama non è.
Mi parli della collaborazione con la tua sceneggiatrice e produttrice Giuditta Tarantelli?
Scrivo solo con lei, metto in scena ciò che scriviamo, non mi interessa nient’altro. Lavoriamo insieme rielaborando suggestioni che ci colpiscono, durante esperienze comuni, letture, incontri. E’ una presenza necessaria, vera, abbiamo metodo, ci completiamo, amiamo l’uno il lavoro dell’altro. E ci interessa un cinema che è carne viva, materia pulsante, nervi scoperti grondanti sangue.
Alla vigilia dell’uscita in sala, che accoglienza sta ricevendo il film nelle presentazioni che hai già fatto? L’incontro con il pubblico che momento è per te?
È interessante, in questa fase, vedere come reagisce il pubblico: per ora ho soprattutto riscontri dal pubblico di festival e rassegne, che reagisce bene, anche se immagino non sia lo stesso dell’uscita nelle sale. Ai festival gli spettatori sono più abituati ad accettare film con stili e linguaggi di ricerca, anche se confido parecchio nell’uscita nazionale del 3 aprile, poiché avverrà in sale selezionate e attente ai film d’autore.
Stai pensando o lavorando a un altro film?
Sto scrivendo con Giuditta e, nel contempo, stiamo lavorando alla produzione di un’opera prima, di un giovane regista, rigorosamente attento al cinema di ricerca, al linguaggio di confine tra documentario e fiction.