Prodotto dalla indipendente Nero Film e distribuito in esclusiva dal Nuovo Cinema Aquila, Le formiche della città morta è l’opera d’esordio di Simone Bartolini, una denuncia, attraverso una messa in scena realistica e crudele, dell’apatico avvilimento della morte per tossicodipendenza di contro alla reciproca indifferenza sociale che svilisce la tragedia nel suo “farsi” e “consumarsi”. Piacevolmente colpiti, abbiamo avuto voluto scambiare qualche parola con il giovane regista.
Un’opera prima è sempre molto carica di aspettative e timori. L’esordio professionale è un salto nel buio e per un giovane autore la più grande spinta è spesso l’urgenza dell’espressione artistica . Come mai hai scelto il contesto complesso e sommerso della tossicodipendenza, per il tuo primo lavoro?
Ho scelto un tema che mi tocca personalmente. Il mio film è anche dedicato alla memoria di molti amici che non ci sono più.
Il sonno è agognato dai protagonisti come uno spazio-rifugio da condividere con la persona amata, ma l’illusione del sogno s’infrange sempre. Puoi parlarci della commistione di speranza e pena che connota le scene oniriche?
Commistione di speranza e pena nelle scene oniriche dici eh?! Eheheh.. No a parte gli scherzi.. Le scene oniriche sono poche e brevi ma sono fondamentali, spezzano completamente col contesto reale quotidiano di Simone e allo stesso tempo permettono di approfondire il personaggio. Grazie allo sguardo sui sogni/ricordo si può comprendere la personalità dell’anti-eroe Simone e conoscerne la sensibilità.
La musica è un “quietivo” essenziale per i protagonisti, ma non rappresenta per loro una reale ancora di salvezza, né economica né morale. Volevi ridimensionare un ideale(luogo) comune, quello che vorrebbe che i ragazzi “persi” possano salvarsi con la tenacia della passione?
Non era sicuramente tra i miei intenti principali, ma sì.. credo che il film possa dare questa impressione. Io però conosco anche qualcuno che con la tenacia della passione ne è uscito e bene.
In una dichiarazione il produttore, Gregory J. Rossi, ha definito l’estetica del film un “neo – neorealismo digitale”. Il realismo dell’azione e gli interpreti non professionisti, che infondono alla trama frammenti del proprio vissuto, riecheggiano la corrente neorealista. Ma c’è una sequenza nel film, che appare un vero tributo: la corsa forsennata e la caduta di Simone, ripreso e abbandonato da una carrellata a precedere sullo sfondo di Piazza di Spagna … Roma città aperta?
Sì certo, Roma città aperta allo spaccio, al mondo sotterraneo, all’illegalità. Nel mio film c’è chiaramente una forte ispirazione al neorealismo ma non solo, a Zavattini, al Dogma ’95, a Fellini per la componente onirica e via dicendo. Essendo la mia opera prima racchiude e cita un po’ tutti gli autori per me importanti.
Nei tuoi prossimi lavori continuerai ad affondare l’obiettivo, come un bisturi, nell’intimità delle questioni sociali? O progetti qualcosa di diverso?
Il nuovo film su cui sto lavorando tratta più l’aspetto psicologico, l’individuazione di alcune personalità tipo, che poi hanno un determinato effetto sulla società. Ma preferisco non parlarne molto visto che è ancora in fase di preparazione.